Il Nord produttivo è sull’orlo di un baratro economico: sono parole del Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Il pericolo numero uno è il credit crunch. Negli ultimi 18 mesi, lo stock di credito alle imprese ha subito un taglio di 50 miliardi, che non ha precedenti nel dopoguerra. In una nota rilasciata a inizio maggio, il Centro Studi della stessa Confindustria ha esaminato alcuni rimedi alla mancanza di credito, esplorando strumenti e canali alternativi come l’autofinanziamento, il private equity e il mezzanine finance, le cartolarizzazioni di prestiti alle imprese e i bond di distretto. Tra i mercati più promettenti, lo studio indica quello dei corporate bond, e in particolare il segmento rivolto emissioni delle Pmi, i cosiddetti mini-bond.



I mini-bond sono una creazione del precedente Governo Monti. Il Decreto-legge n. 83 del 22 giugno 2012 ha favorito le obbligazioni (e le cambiali finanziare, di durata fino a 36 mesi) emesse da società non quotate in Borsa. Lo ha fatto prima di tutto agendo sulla fiscalità: è stata eliminata la ritenuta del 20% sugli interessi di quei titoli e si è consentita la loro deducibilità dal reddito dell’impresa emittente. In questo modo, le obbligazioni di piccole società sono uscite dall’ombra, non più viste come una forma elusiva di finanziamento-soci, ma a tutti gli effetti promosse verso un’ampia platea di investitori.



In forza del decreto citato, i minibond, se portati in quotazione su mercati regolamentati, si possono emettere anche oltre il limite fissato dall’art. 2412 del codice civile, pari al doppio del capitale sociale e delle riserve. Borsa Italiana ha creato un apposito segmento per accogliere le emissioni di minibond, l’ExtraMot PRO. Come dice il nome stesso, si tratta di un segmento riservato agli investitori professionali, tipicamente banche e fondi di investimento. Gli unici requisiti per le società emittenti sono la pubblicazione del bilancio degli ultimi due esercizi, di cui l’ultimo sottoposto a revisione contabile, e di un documento informativo essenziale, più semplice del prospetto di quotazione ex Direttiva europea.



Successivamente alla quotazione, l’emittente è tenuto a pubblicare bilanci revisionati, eventuali giudizi di rating, e informazioni di carattere tecnico e legale sugli strumenti collocati. In precedenza, soltanto le banche e gli intermediari vigilati dalla Banca d’Italia potevano acquistare bond di società non quotate emessi oltre il limite civilistico. La banca che rivendeva un minibond a investitori non professionali restava impegnata come garante della sua solvibilità. Pertanto, il minibond era di fatto la confezione diversa di un finanziamento bancario, per cassa o di firma.

Oggi possono investire in questi strumenti vari veicoli di shadow banking, alimentati da capitali di origine italiana e internazionale. Si tratta principalmente di credit funds, fondi di investimento chiusi creati per dare a investitori non bancari (assicurazioni, privati facoltosi, fondazioni, hedge funds) l’equivalente di un portafoglio di prestiti bancari. Investimenti del genere interessano perché offrono rendimenti più alti, rischi diversificati rispetto agli onnipresenti titoli di Stato o bancari, e valutazioni di bilancio non troppo soggette alla volatilità dei mercati.

Come tutti i rimedi invocati contro il credit crunch, anche i minibond hanno suscitato grandi speranze. Tuttavia, è da ingenui pensare che un restyling normativo basti per creare un nuovo mercato e per renderlo accessibile, democraticamente, a tutte le imprese bisognose di capitali. Purtroppo non è così. Anche se alleggeriti, gli adempimenti richiesti per emettere e rendere negoziabile un corporate bond su un mercato nazionale o internazionale sono complessi e generano spese fisse che pesano troppo su emissioni piccole. Inoltre, uno strumento del genere è naturalmente destinato a finanziare nuovi investimenti. Difficilmente può attrarre capitali verso imprese a corto di liquidità per consolidarne il debito.

Di fatto, sul mercato dei minibond per diversi mesi non è successo granché, a motivo dei proibitivi tagli di emissione richiesti (150 milioni di euro quello ideale, al più 50 milioni quello minimo). Poi, verso la fine di maggio, sono apparsi i primi annunci di operazioni vere, a misura di Pmi. Ad esempio, quella promossa dalla Banca di credito cooperativo di Cherasco (Cuneo) per la Caar, locale società di engineering: 3 milioni di minibond a 5 anni che pagano un tasso fisso del 6,5%. Il 28 maggio a Firenze la Finanziaria Internazionale Sgr di Andrea De Vido e il gruppo Montepaschi hanno lanciato un credit fund di tipo chiuso specializzato in minbond di taglio compreso tra 2 e 5 milioni di euro, emessi da Pmi orientate verso i mercati esteri. Il portafoglio obiettivo dovrebbe mettere insieme 150 milioni di euro di investimenti così impostati. La Sgr di Conegliano Veneto selezionerà le imprese, la banca senese sarà advisor delle emissioni di minibond, i rating saranno attribuiti dalla bolognese Crif, registrata come credit rating agency da Consob.

Confindustria, per voce di Vincenzo Boccia, vicepresidente con delega al credito, ha dato il suo pieno appoggio. Un progetto tutto made in Italy, verrebbe da dire. Compresi probabilmente gli investitori, che si pensa di reperire tra famiglie imprenditoriali disposte a impiegare nel fondo dai 50mila euro in su.

Gli esperimenti su minibond, per quanto ancora limitati, meritano un giusto interesse. Se utilizzati bene, i minibond possono insegnare molto alle imprese che li emettono e agli intermediari che li confezionano e li trattano. Un mercato oggi solo italiano potrebbe internazionalizzarsi, come le imprese che lo utilizzeranno. Non stiamo però parlando di un rimedio universale. Le 500 mila e più piccole imprese che soffrono per il credito che scarseggia sono fuori, ahimè, da questo nuovo mercato. La via al loro risanamento finanziario può passare soltanto dalle banche.

Anche in questo campo c’è bisogno di sperimentare ricette e soluzioni altrettanto inedite e coraggiose.