Ma cosa sono i Brics? Da mercoledì, quando l’acronimo più famoso della finanza di questi anni ha fatto capolino nei temi di maturità, centinaia di migliaia di famiglie italiane ne hanno scoperto per la prima volta l’esistenza. Al proposito, ho condotto un rapido sondaggio tra amici e conoscenti: gente giovane e meno giovane, laurea o quantomeno diploma in tasca. Nessuno sapeva che Brics sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. I più hanno anche aggiunto di averne sentito parlare per la prima volta con i temi di maturità. Per carità, non è un delitto ignorare il concetto di Brics, anche se buona parte dei risparmiatori italiani ha sottoscritto, tramite banca o promotori finanziari, qualche fondo di investimento o addirittura prodotti più sofisticati dedicati proprio ai Brics. E l’ha fatto basandosi, il più delle volte, sulle performances passate o per sentito dire piuttosto che per sfruttare quei paesi dove “si lavora quasi per niente” o altre banalità del genere, ricetta quasi automatica per rimetterci un po’ di soldi (la Borsa di Shanghai, da anni, è un pessimo affare).
Non è neanche il caso di prendersela più di tanto con la carta stampata. I giornali, diceva Hegel, rappresentano la preghiera del mattino dell’uomo moderno. Altri tempi. Ormai l’uomo, spesso suo malgrado, è connesso a ogni ora del giorno con qualche strumento di comunicazione che, il più delle volte, non può che limitarsi a lanciare comunicazioni rapide ed essenziali, il più lineari che si può. E con un orizzonte temporale limitato. Non c’è tempo per capire o, quantomeno, per metabolizzare informazioni complesse.
Il risultato? Si consolidano luoghi comuni che sfidano l’evidenza. E così gli italiani, che in questi anni hanno ripetutamente sentito parlare del miracolo del Brasile (con ottimi risultati dei fondi), hanno scoperto solo grazie alla Confederations Cup che qualcosa comincia a non funzionare dalle parti di Rio. Al pari della Turchia, altra terra del boom e delle grandi infrastrutture, dove ha preso corpo un dissenso inatteso. Intanto la rupia indiana scende ai minimi da cinque anni a questa parte. E la Cina manda ormai segnali chiari, inequivocabili: l’economia frena, assai di più di quanto non ammettano le statistiche ufficiali.
Non solo, è sempre più evidente che le autorità faticano a pilotare la frenata, per certi versi opportuna (basti pensare all’inquinamento), dell’economia: la stretta monetaria in atto non è servita finora a fermare la corsa dell’immobiliare, in piena bolla speculativa, ma al contrario ha avuto l’effetto di provocare la carestia del credito a imprese comunque troppo indebitate. Il tutto mentre la spirale dei prezzi e dei salari sta convincendo molte aziende Usa e tedesche a far le valigie e rientrare a casa.
Insomma, una volta scoperta l’esistenza dei Brics, l’opinione pubblica dovrebbe chiedersi se il movimento epocale che ha spostato verso gli Emergenti il baricentro dell’economia mondiale non stia subendo una battuta d’arresto.
Certo, ormai certi risultati sono consolidati. Ma, dopo il boom iniziale e l’investitura ufficiale del tema di maturità, gli Emerging stanno entrando in una fase di consolidamento delicata e complessa: le democrazie (vedi India e Brasile) devono aprirsi alla concorrenza, pena una brusca caduta degli investimenti; le economie più o meno pianificate, vedi la Cina, devono investire le loro immense risorse nell’economia mondo, senza la pretesa di sostenere settori improduttivi o protetti.
Ma chi ha lanciato il granello di sabbia negli ingranaggi dei Brics? Ne sa qualcosa Ben Bernanke, il banchiere centrale che, prima di esser allontanato, in maniera brusca, dalla guida della Fed, ha ormai quasi compiuta la sua mission impossibile. L’America, come ha ripetutamente ribadito nella conferenza stampa di mercoledì, ha ripreso la sua corsa. Nonostante i tagli alla spesa pubblica (che valgono almeno un punto di Pil) gli Usa avanzano del 2%, la disoccupazione, pur ancora elevata, è di sei punti meno alta che in Europa. Ma quel che conta di più è che la terapia sui conti delle banche, sui finanziamenti alle imprese e all’innovazione hanno riportato gli Usa in testa al plotone.
Cresce l’immobiliare, avanzano a due cifre gli acquisti di auto stimolati dalla ripresa del credito. E anche a Wall Street cresce la schiera dei gestori che, invece di compulsare le convulsioni dei tassi, scommette sui nuovi primati d’America, quelli che faranno la differenza tra gli Usa e gli Emerging: i campioni dello shale gas che nel giro di un anno hanno ribaltato le classifiche dei prezzi dell’energia (mettendo in ginocchio Gazprom, il cuore del potere di Putin); i nuovi geni della new economy che non si occupano più di realtà virtuale ma di fabbriche.
Proprio ieri Stratasys, azienda d’avanguardia delle stampanti 3D (buone un po’ per tutto, dalle dentiere all’auto) in utile ha acquistato MakerBot, un’altra azienda del settore, per 403 milioni di dollari (sei volte il fatturato) “carta contro carta”.
Non è difficile immaginare che, nel prossimo futuro, sarà più conveniente produrre su piccola scala prodotti personalizzati in un’officina di città riadattando capannoni dismessi piuttosto che affidarsi a commesse in Oriente giustificate solo dal basso livello dei prezzi. È questa la realtà che giustifica l’ottimismo di Bernanke, per ora non compreso da mercati drogati dal denaro a costo zero e dalla prospettiva di profitti solo speculativi.
Ma la corsa dei dollari che rientrano rapidamente da San Paulo, Istanbul o Shanghai per cogliere le buone occasioni in Occidente stanno a spiegare che un capitolo della globalizzazione, almeno per ora, si sta per chiudere. E che la ripresa della crescita, come è sempre avvenuto, non passerà dalle famose riforme, bensì dalla rapidità di adattarsi al nuovo trend, come molti industriali italiani stanno già facendo, senza perder tempo nelle assemblee, tediosissime, in cui si discute di Iva sì, Iva no.