Sarà perché in questi giorni sono particolarmente critica verso le sovrastrutture che quotidianamente invadono la nostra vita – sia quando abbiamo a che fare con la Pubblica amministrazione, sia quando abbiamo a che fare con le organizzazioni delle grandi multinazionali – ma comincio a pensare che la soluzione per ripartire sia molto semplice: tornare alle cose. Le cose che si posso toccare, che si possono apprezzare, che si possono (perché no?) anche mangiare. Siamo bombardati quotidianamente da notizie legate a start up basate sull’innovazione digitale, sulla realtà virtuale, sull’intangibile che diventa un business. E tutto questo va benissimo, soprattutto se offre l’opportunità ai giovani, a coloro che si rivolgono a quello che qualche anno fa era definito web 2.0 (ma adesso siamo al 3.0 o no?) di trovare occupazione e di uscire dallo stereotipo dei “bamboccioni” per provare ad avere un’esistenza completa che consenta di fare scelte, mettere su famiglia, creare una speranza. Ma accanto a questo c’è un mondo che fa meno notizia, o che comincia a farla solo adesso, di concretezza o se si vuole di ritorno al “sapore vero della vita” per parafrasare uno spot di qualche anno fa.
Nei giorni scorsi ero insieme ad amici e ho conosciuto Massimo Mancini, un imprenditore sulla quarantina, che ha un’azienda straordinaria nel marchigiano che produce una qualità di pasta che sta conquistando il mercato degli intenditori e della ristorazione di alto livello. Aveva il sorriso stampato sul volto e trasmetteva serenità. Come se la soddisfazione per quello che ogni giorno produce la sua terra fosse la miglior ricompensa possibile per gli sforzi, gli investimenti, l’innovazione che è necessaria a ogni impresa di successo. Oggi, discutendo con un altro amico, ho ascoltato la storia di un altro giovane intraprendente che, accanto all’attività di manager, ha avviato con profitto l’allevamento delle lumache, creando un giro d’affari di tutto rispetto. Viaggia spesso all’estero e sta espandendo la sua piccola azienda, tanto che sta pensando di dedicarsi esclusivamente a questa.
Raccontavo alcune di queste storie a dei colleghi non italiani, aggiungendo altri esempi più famosi come quello di Eataly di Oscar Farinetti o del D’O di Davide Oldani e uno di loro ha commentato: “Sembra che l’Italia sia ricca di storie straordinarie e di successo. Di persone speciali capaci di fare cose uniche”. Non ho potuto fare altro che dire che era assolutamente vero e che la capacità di creare è da sempre nel nostro DNA. Quello che ci difetta è la nostra idiosincrasia a fare sistema. A muoverci come una comunità che tenda a sviluppare gli interessi comuni per poi garantire a tutti le corrette opportunità di business, come fanno in molti altri paesi europei.
Tutte queste discussioni mi hanno però riportata costantemente al punto di partenza. Soprattutto in Italia, abbiamo l’urgente necessità di tornare alla cultura del territorio. Di tornare alla valorizzazione degli aspetti originali e straordinari di questo Paese, non solo per ri-apprezzarlo, ma soprattutto per cogliere l’opportunità di farlo ripartire e con esso di far ripartire le vite di tutte quelle persone che oggi sono senza lavoro, sia perché lo hanno perso, sia perché, essendo giovani, non riescono e trovare un’opportunità.
Qualche segnale in questo senso comincia a vedersi. Qualche settimana fa, i principali giornali riportavano, evidenziandola, la notizia del forte incremento degli studenti iscritti alla facoltà di agraria nei principali atenei italiani. Un ritorno alla terra, che sembra aprire nuove prospettive, meno virtuali e decisamente più tangibili. “La natura – scriveva Henry David Thoreau in Walden ovvero vita nei boschi– era qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissimo. Guardavo con soggezione la terra che calpestavo per vedere cosa avessero compiuto le Forze – la forma, il modo, il materiale della loro opera. Questa era la terra di cui sentiamo parlare, creata dal caos nella notte dei tempi. Qui non c’erano giardini ma il globo incontaminato. Niente prati, né pascoli, né coltivazioni, né boschi, né terre arabili, né incolte, né desolate. Era la superficie fresca e naturale del pianeta Terra, com’era stata creata per i secoli dei secoli – come dimora dell’uomo, diciamo noi -, così la Natura l’ha fatta e che l’uomo la usi se può”. Ecco, forse uno dei passaggi fondamentali di questo periodo, è proprio legato alla voglia di tornare a meravigliarsi per quello che abbiamo attorno. Di tornare ad apprezzare l’unicità assoluta dell’Italia e, perché no, dopo tanto parlarne, iniziare davvero a farne una ricchezza.
Non ci siamo mai riusciti finora. Abbiamo parlato mille volte, del rilancio del turismo, delle cucine regionali, dei paesaggi, della cultura, della storia. Poi, puntualmente non accadeva nulla. La crisi economica non accenna a mollare la presa. Gli indicatori che a inizio anno sembrano invertire la tendenza, poi continuano in realtà a essere in rosso. Forse, nella criticità estrema di questa situazione, si avvertono i primi segnali di ritorno alla concretezza e ai valori. Tra di essi il territorio. Se saremo capaci di proseguire su questo cammino appena abbozzato, forse potremo dire anche noi con Thoreau: “Andai nel mondo perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo, spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita”.