L’archivistica è sempre utile. Uno si guarda intorno, tra le pareti domestiche, e ritrova qualche chicca sulla quale calare le fauci, con qualche intento analitico. Nel mio garage, spunta fuori da uno scatolone stracolmo di carte un pezzullo niente male – una lettera – di un piccolo imprenditore fiorentino, datata 2005, a occhio e croce. Ma questo è il cappello, ci dobbiamo mettere dentro una testa, e la testa è nientemeno che quella, non banale, del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ultimo- ma non per importanza -fustigatore dei costumi italioti in materia di imprenditoria e – udite udite – innovazione.



Con le migliori, come sempre. Ma spesso le buone intenzioni, oltre a lastricare le strade dell’inferno, s’infrangono sugli scogli della dura realtà. Questo articolo, scritto da un dilettante in materia economico-finanziaria, vorrebbe far scendere, dalle travi antiche del casale ristrutturato (leggi Bankitalia) i “caciocavalli appesi”, per dirla con Benedetto Croce. Le Idee megalattiche provenienti dall’iperuranio platonico degli analisti; una sbobba, diciamola tutta, che non piaceva neanche all’imprenditore, autore della lettera.



Aveva ragioni da vendere, credetemi. Vengo al punto: cosa afferma Visco nel capitolo dedicato all’economia italiana – pp. 9-13 – delle sue Considerazioni finali? Ecco il testo (p. 10): “Le imprese sono chiamate a uno sforzo eccezionale per garantire il successo della trasformazione, investendo risorse proprie, aprendosi alle opportunità di crescita, adeguando la struttura societaria e i modelli organizzativi, puntando sull’innovazione, sulla capacità di essere presenti sui mercati più dinamici. Hanno dimostrato di saperlo fare in altri momenti della nostra storia. Alcune lo stanno facendo. Troppo poche, però, hanno accettato fino in fondo questa sfida; a volte, si preferisce, illusoriamente, invocare come soluzione il sostegno pubblico”.



Bene, il Governatore della Banca d’Italia richiama con vigore le imprese a fare le imprese, che devono usare risorse proprie, capitali privati, e puntare sull’innovazione. In sintesi: meno capitalismo straccione, più capitalismo vero. Un bel caciocavallo appeso al soffitto dell’aula autorevole di Bankitalia. Caciocavallo che ha un suo peso specifico, sia chiaro, ma che, per il fatto di essere un tantino appeso lassù, rischia di far dimenticare come sia il gustoso sapore del caciocavallo.

Tra Platone e Aristotele, scegliamo dunque il secondo. E così ci rifacciamo da buoni empiristi – forse straccioni, con soluzioni pronte all’uso – alla lettera del nostro imprenditore fiorentino, da lunga pezza sul mercato. “Caro Iannuzzi, ecco il promemoria promesso. Come lei sa, in Italia le piccole e medie imprese rappresentano l’85-90% dell’imprenditoria nazionale. Un esercito enorme e muto che produce, fa occupazione e ricchezza. Siccome sono muti, nessuno si cura di loro, salvo farlo in convegni e dibattiti dove economisti, politici, sindacalisti e “grandi industriali” (si fa per dire) si recano in luoghi comuni nel dire alle pmi cosa dovrebbero fare e non dovrebbero fare, senza la benché minima esperienza diretta. Quelli che contano non sono i consigli, ma gli esempi. Costituiscano imprese modello, a cominciare dai sindacati, anziché aspettare i soldi che gli arrivano fino a casa, e, con esempi concreti, ci dimostrino come si fa impresa, anziché considerarci bambini scemi bisognosi di tutore”.

Segue una sacrosanta e legittima perorazione pro domo sua, perché davvero la pmi è “una ricchezza”, per “dinamicità, inventiva e creatività”.

Ora, Visco sa perfettamente che quanto scrive questo imprenditore è vero. E sa che, in realtà, è la parte minoritaria dell’impresa italiana, la cosiddetta grande impresa, a chiedere interventi pubblici anche di cifra strutturale (il caso Fiat pre-Marchionne è un case-study), ma non la stragrande maggioranza delle Pmi – il corpo solido del capitalismo italiano – che, di contro, si dibatte e si avvita in questioni gigantesche quali lo Stato insolvente e l’incapacità delle banche, in parte sottolineata anche dal Governatore (pp. 13-18), di leggere il momento attuale e riprendere il ciclo di apertura del credito a questi volani produttivi.

Una spirale negativa che si autoalimenta e che francamente non ha nulla a che fare con la mancanza di spina dorsale delle Pmi nell’innovare prodotti e servizi. Una vecchia storia costruita da convegnisti e oggi anche da queste Considerazioni, ma, come ricorda il nostro imprenditore a cui non manca il dono della chiarezza, un festival del “luogo comunismo” o, per citare un economista liberale di rara acutezza, Anthony de Jasay, del “parlare a pappagallo”, ripetendo slogan e frasi fatte, a uso e consumo di élites frustrate e inadeguate – esse sì – al compito storico che si para loro innanzi.

Non basta. Mi affido ancora alle parole dell’imprenditore: “Le frasi più abusate sono: ‘Innovare per competere’ e ‘aggregarsi’. Analizziamole (n.d.r.: e qui il gioco si fa duro): Innovare per competere (il grassetto è dell’Autore). Telefono – Dopo solleciti e arrabbiature varie, mi è stato allacciato dopo tre mesi. Computer – L’intervento sulla linea dati (Telecom) ha richiesto due mesi, costringendoci a operazioni manuali. Enel – Le microinterruzioni di corrente sono fra i maggiori danni per la mia azienda (vetreria). Alle nostre proteste, l’Enel rispondeva che era colpa della linea troppo debole e che era previsto un suo adeguato potenziamento. Sono passati dieci anni e lo stiamo ancora aspettando. Pratiche burocratiche – Nessuno si assume responsabilità. Intralci burocratici rallentano notevolmente, fino a bloccarli per stanchezza, investimenti necessari per adeguamenti strutturali e tecnologici. E fermiamoci qui. Ciononostante, come un disco rotto, si continua a ripetere ‘Innovare per competere’. Ma su quale pianeta vivono? Non certo in quello della Piccola e media impresa”. Aggiungo io: cioè, non in quello del capitalismo italiano.

Visco, nelle sue Considerazioni, parla molto, fin dalle prime battute, di Europa ed euro, ma non c’è quasi niente sul sistema-Paese come insieme, salvo poi riconoscere che questo complesso di situazioni e realtà – dalle banche, che sono come sono, alle infrastrutture – ricadono inevitabilmente sull’altra vacca sacra, strascicata ma mai adeguatamente declinata, che si chiama “coesione sociale”. Troppo poco, anche se, in un clima politico come quello attuale, comprendo la posizione di Visco. Ma almeno ci venga risparmiato l’esercizio sterile, se non farisaico, delle analisi a freddo su qualcosa che sta, invece, diventando caldo, a contatto di un calor bianco mai visto prima.

Chiudo sulle ultime chicche dell’imprenditore fiorentino, che – tra parentesi – opera in un settore di alto livello, con un mercato internazionale davanti a sé, quello della lavorazione del vetro. Dunque, un osservatorio privilegiato. “E ora passiamo a elencare – incalza – alcuni lacci che riducono o impediscono la competitività. Energia e Gas Metano – Lo paghiamo mediamente il 35% e 20% in più dei nostri colleghi francesi, tedeschi ecc. Una richiesta semplice sarebbe quella di abbattere queste differenze. Questo sì che sarebbe ‘innovare per competere’”.

Dunque, non fondi pubblici, ma un sistema-Paese decente e adeguato alle sfide della competitività, con élites adeguate a siffatte sfide, ecco il punto. Ecco la richiesta. Così semplice da apparire surreale, in un sistema rovesciato come il nostro. “Evasione fiscale – Sappiamo perfettamente dov’è, ma nessuno si muove perché prevalentemente legato all’artigianato, piccole imprese individuali o familiari, cioè a un serbatoio incredibile di voti”. Su questo punto, aggiungerei che, in realtà, per molte Pmi una certa quota di evasione è – né più, né meno – che legittima difesa, e che l’evasione coinvolge, in realtà, chi può far sparire capitali, proprio dopo aver preso, spesso, un bel po’ di denaro pubblico.

Dunque, lo Stato, che dovrebbe vigilare prima, è oggettivamente corrivo con questo sistema di evasione, sistemica prima ancora che sistematica. Che fare? Meno tasse e incentivi a chi assume e fa bene il suo mestiere di imprenditore, come vuol fare questo governo, che deve, a mio avviso, essere sostenuto in questa come in altre azioni di risanamento e riforma. “Lavoro sommerso – È una vergogna. È sotto gli occhi di tutti, ma nulla si fa per combatterlo. Questa guerra dovrebbe vedere in prima linea i sindacati. Ridurre il sommerso vorrebbe dire più contributi per i sindacati, meno contributi per i lavoratori e i datori di lavoro, con sensibile riduzione dei costi e aumento dei salari”. Perfetto e anche su questo punto, silenzio tombale di Visco.

D’altra parte, questo è uno strano Paese: il partito più grande della sinistra assume come commissario straordinario un sindacalista, fino a ieri compagno del nemico Craxi, per addomesticare i futuri interni della politica. Dunque: chi fa più vero sindacato e chi fa più politica? Ai posteri – dopo l’azzeramento di questa sinistra che fu – l’ardua sentenza. Può bastare.

L’altro passaggio di Visco, che contraddice la sua perorazione pro capitalismo, contro il capitalismo straccione, è dedicata alle banche, alla loro – per così dire – “intelligenza strategica” (le virgolette ci stanno tutte, e sono mie). Afferma il Governatore di Bankitalia: “Le difficoltà nel finanziamento delle imprese devono stimolare una riflessione sull’assetto complessivo del sistema finanziario italiano […]. Come abbiamo sottolineato in altre occasioni, tale assetto riflette in parte la riluttanza ad aprirsi delle aziende italiane. Ma le banche non hanno spinto a sufficienza le imprese ad avvicinarsi ai mercati”(p. 18). Tradotto dal bankitaliese: le banche non hanno aperto i cordoni della borsa a chi voleva investire, produrre e – udite, udite – innovare.

Risultato: il cane che si morde la coda ma, soprattutto, dopo quanto documentato dall’imprenditore fiorentino nella sua lettera, il giudizio di Visco e di larga parte delle “classi dirigenti” italiane sulle Pmi e sul capitalismo italiano, nella sua carnale quotidianità, è distante sideralmente dalla realtà. La cosa è giunta ormai a un livello che definirei imbarazzante. Ma tant’è.

Visco, infine, chiude la sua sintetica analisi, con la retorica dei numeri primi, e gliela concediamo: “Non bisogna aver timore del futuro, del cambiamento. Non si costruisce niente sulla difesa delle rendite e del proprio particolare, si arretra tutti. Occorre consapevolezza, solidarietà, lungimiranza. Interventi e stimoli ben disegnati, anche se puntano a trasformare il Paese in un arco di tempo non breve, produrranno la fiducia che serve per decidere che già oggi vale la pena di impegnarsi, lavorare, investire”.

Nel lungo periodo saremo tutti morti – Keynes docet. Ma questo Visco lo sa.