“L’etichetta dice italiano, ma i proprietari sono stranieri”. Così scrive Breakingviews, la rubrica della Reuters pubblicata sullo Herald Tribune, a proposito di Loro Piana conquistata da LVMH. C’è un filo di rimpianto nel commento che non ha nulla a che fare con provincialismo arretrato o nazionalismo anacronistico. Reuters nasce come agenzia di informazione britannica e ormai è una multinazionale, portabandiera della globalizzazione. Ma anche ai paladini del modello anglosassone appare evidente che l’Italia non può reggere alle sfide se resta ingessata nei suoi vecchi paradigmi, a difesa di arretratezze e privilegi.
Scrive ancora l’editoriale: “Il capitalismo italiano ha bisogno di liberalizzazione per sopravvivere. Il pericolo sottolineato da Loro Piana è che aspettando tanto a lungo di aderire al mercato globale, solo poche imprese piene di salute saranno in grado di scegliere come”. Questo è il punto. I Loro Piana con due miliardi e rotti di euro hanno sistemato la discendenza per alcune generazioni (se poi gli eredi non si bruciano tutto in donne e motori, secondo la peggiore delle tradizioni). Buon per loro. Ma in Italia non c’è stato nessuno in grado di acquistare l’azienda e inserirla in una filiera più grande, in un gruppo capace di stare nel vagone di prima classe, non nell’ultima carrozza del treno mondiale.
Mentre zitto zitto monsieur Arnault si pappava il re del cachemire, Diego Della Valle si rode il fegato perché John Elkann lo ha battuto nella gara per conquistare il Corriere della Sera. Mr.Tod’s è uno di quegli imprenditori che dal nulla hanno creato un marchio del lusso. Avrebbe potuto essere il candidato ideale per l’azienda laniera piemontese. Ma non ha certo i due miliardi sborsati sull’unghia da LVMH. Lo stesso dicasi per Brunello Cucinelli, che è andato in borsa lo scorso anno (scelta apprezzabile, segnale di quella liberalizzazione della quale parla Breakingviews) e ha costruito sulle soffici lane orientali la sua fortuna: anche lui è troppo piccolo. Uno solo è grande abbastanza in Italia, Giorgio Armani, ma anche la sua è un’azienda familiare con problemi di successione ed è da tempo nel mirino di Arnault.
Di tutto questo non si è parlato martedì sera nella foresteria della Confindustria in via Veneto durante la cena alla quale il presidente Giorgio Squinzi ha invitato i vertici parlamentari. Si sono affrontati temi molto seri per il futuro industriale del Paese, come la questione dell’Ilva. O il cahier de doleances che l’associazione degli imprenditori presenta al governo: dal rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione all’eterna questione fiscale dalla quale emerge la richiesta più usuale, ovvero una riduzione degli oneri sociali. Oggi si chiama cuneo fiscale, anche se i puristi dei tributi arricciano il naso: dentro quella definizione rientrano tante voci diverse, quel che vuole la Confindustria è pagare meno contributi sui dipendenti. Una rivendicazione che risale agli anni ‘70 e che è stata di volta in volta soddisfatta da una miriade di governi (ultimo il governo Prodi del 2006) e ciononostante ci sentiamo ancora accusare da Standard & Poor’s di scarsa competitività, bassa produttività, carico fiscale eccessivo sul lavoro e sul capitale.
Che fine hanno fatto quei 5 punti tagliati da Prodi (60% ai profitti e 40% ai salari) divisi in due tranche ed erogati nel 2007 prima che cominciasse la crisi? È uno dei tanti misteri mai risolti. Se fossero veri i benefici promessi, l’industria italiana avrebbe dovuto arrivare al crac del 2008 meglio di molti concorrenti e riprendersi prima degli altri, magari insieme alla Germania che aveva ridotto le imposte sulle imprese e contenuto i costi del lavoro. Invece, così non è stato. Come mai? La Confindustria e chiunque agita la bandiera del cuneo fiscale dovrebbe spiegarlo.
Sarebbe stato bello se Squinzi avesse spiazzato i suoi commensali presentando loro un progetto di cambiamento e di innovazione all’insegna del mercato. Cominciando dalla liberalizzazione del capitale. Se avesse detto: basta con i giochetti dei salotti, basta con i patti di sindacati, favoriamo noi per primi fusioni, acquisizioni, accorpamento, crescita dimensionale, mettiamo i capitali nelle imprese non nei giornali, questo abbiamo noi da dare al Paese e vi sfido a ostacolarci. Se avesse presentato una sorta di statuto dell’impresa, parallelo allo statuto dei lavoratori, chiamando i presidenti del Senato e della Camera o i presidenti delle commissioni a pronunciarsi apertamente a favore di un’Italia che voglia restare tra i grandi paesi industriali. Avremmo voluto vedere la risposta della presidente Boldrini, che ha rifiutato l’invito di Sergio Marchionne, di fronte a una chiamata alle armi nell’interesse del Paese.
Invece, non c’è stato nulla del genere. Anche la Confindustria vola basso, ha paura di osare, non vuole sfidare nessuno sperando che così potrà portare a casa qualcosa, fossero anche briciole, da presentare a tavola. È un capitalismo che gioca in difesa, quindi non può essere cacciatore, resterà sempre preda. È composto da un insieme di imprenditori di grande livello professionale grazie ai quali il Paese ha evitato il declino. Continuano a fare cose belle che piacciono al mondo, per usare l’espressione di Carlo Maria Cipolla, per questo resistono, stanno a galla. Ma non sono una vera e propria classe con il senso di una missione collettiva. Di fronte a casi come Loro Piana reagiscono con mors tua vita mea o magari invidiando i due fratelli che si sono sistemati per sempre. Un capitalismo senza ambizioni dopo averne consumate forse troppe, alcune della quali magari infondate.
Così, un vento di conservazione, nel senso di difesa dello status quo, spira anche dalle terrazze di via Veneto. Si aggiunge alle folate conservatrici che travolgono la piccola grande coalizione politica. O ai timidi passi dei banchieri che, pur criticati da Mario Draghi e persino da Standard & Poor’s, si tengono la roba (la liquidità fornita dalla Banca centrale europea) per paura di non perdere tutto, non aprono i rubinetti del credito, non investono, nemmeno loro, nel futuro del Paese. L’Italia sta attraversando una crisi strutturale: o riesce a trasformare il proprio sistema produttivo collocandosi nella fascia alta, oppure resterà per sempre ai margini. Ma non resterà ricca per sempre. Non si può fare come il Candide di Voltaire: coltivare l’orticello non servirà nemmeno a difendere l’orticello.