Sui Btp a trent’anni l’Italia ha dovuto pagare venti centesimi in più per raccogliere 1,46 miliardi di euro, poco meno del quantitativo offerto. Numeri di questo genere non possono giustificare un allarme generale o l’isteria del mondo politico. Nessun Paese sull’orlo del default può concedersi il lusso di prender denaro a prestito al 5% di qui al 2043. Ma, d’altro canto, nessun Paese con un tasso di crescita nel corso degli ultimi vent’anni inferiore all’1%, e per giunta in costante decelerazione, può permettersi di pagare il 5% abbondante di interessi per i prossimi 30 anni.
Sta qui il nocciolo duro del caso Italia: le cifre, per ora, non ci condannano vista la consistenza patrimoniale della ricchezza degli italiani (che hanno in mano il 70% dei titoli di Stato di casa nostra) e la faticosa marcia della bilancia commerciale della bilancia dei pagamenti verso un saldo positivo, circostanza che allontana ancor di più la dipendenza del debito dagli acquisti degli stranieri. Ma, se non si cresce, il riequilibrio non può che avvenire attraverso una brutale riduzione dei consumi e delle ragioni di scambio con l’estero. Un circolo vizioso che si può spezzare solo con un patto sociale che richiede ben altra coesione tra le classi sociali e un’azione di sistema sulle cause dei nostri handicap.
In assenza di quest’azione, le imprese sono costrette a scegliere strade individuali per affrontare i mercati internazionali, unica prospettiva di crescita all’orizzonte. Qualcuno, vedi Fiat, gioca la carta dell’internazionalizzazione acquisendo un passaporto Usa; qualcun altro, di dimensioni ragguardevoli ma in nicchie di mercato più ridotte, può giocare il ruolo di consolidatori (vedi Luxottica o Campari); molti scelgono la strada della cessione, come è accaduto a Loro Piana. Non è una fuga dalle responsabilità o una resa. Semmai, una scelta dettata dal realismo: il capitalismo italiano non offre strutture finanziarie, manageriali o network commerciali sia fisiche che on line in grado di sostenere l’esigenza di crescita di un gruppo “verticale” come Loro Piana, che serve una nicchia di clientela di altissima gamma un po’ il tutto il mondo. Un’azienda così ha bisogno di appoggiarsi a una struttura diffusa, con una forte competenza commerciale e un e-commerce d’avanguardia, in grado di far arrivare il brand un po’ ovunque. Di qui la scelta obbligata di Lvmh o l’alternativa Kering (attuale nome di Ppr), società che, per la verità, non erano poi così irraggiungibili alla fine degli anni Novanta, quando non era difficile capire che il business del fashion avrebbe assunto le dimensioni globali che ha sviluppato in questi anni.
L’Italia ci ha provato, con la nascita di Hdp, la holding benedetta da Mediobanca che avrebbe dovuto far da scudo alle eccellenze del made in Italy. Le premesse sembravano positive: l’acquisto di Valentino, l’arrivo di atri marchi, l’alleanza con il gruppo Marzotto. Ma l’avventura si è presto tradotta in un fiasco. Per molte ragioni, che meriterebbero di essere studiate a fondo. Tra queste, senz’altro, la mancanza di un leader del calibro di Bernard Arnault, sostituito in salsa italiana da rampolli delle grandi famiglie cooptati per merito di sangue, non del merito. Eredi, più che manager, chiamati a imprese smisurate per i propri mezzi.
Purtroppo la moda italiana non è stata affidata a un Andrea Guerra o a un Sergio Marchionne. O a Vittorio Colao, cacciato da Rcs perché si oppose a scelte scellerate. Gemelle di quelle che hanno portato al flop della holding italiana del lusso. Inutile, si sa, piangere sul latte versato. C’è da domandarsi, semmai, se l’azione delle banche centrali consentirà all’Italia il tempo necessario per ripartire. Forse sì, ma la relativa calma che si respira sul fronte dei mercati non può indurre a grande ottimismo.
L’Italia può contare, per ora, sulla rete di protezione stesa da Draghi e suggellata dal dietrofront di Ben Bernanke, che ha negato il tapering (cioè la progressiva fine) della politica di espansione monetaria. Queste mosse offrono tempo prezioso per le riforme, garantendo la tenuta dei conti pubblici. Ma sul fronte dei mercati monetari la situazione è in evoluzione: si allarga la forbice tra i Bond Usa e i Bund tedeschi, cosa che lascia intuire prossimi scossoni sul fronte dei tassi reali e sullo spread. Una maggior pressione potrebbe tradursi, nonostante gli sforzi della Bce, in un aumento dello spread a danno di Italia e Spagna, che presto potrebbe cadere nel gorgo dei titoli senza rating.
In assenza di una risposta rapida sul fronte della finanza pubblica italiana e, soprattutto, di misure credibili per il rilancio della crescita, l’Italia rischia di dover coprire un “buco” nell’ordine di 50-60 miliardi. Per non tenere conto dei problemi che potrebbero arrivare per le nostre banche se il tasso di crescita delle sofferenze procederà con la stessa progressione denunciata davanti alla platea dell’Abi dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Senza tener conto che, tra un anno, scatterà l’impegno di procedere, entro vent’anni, ad abbassare il debito pubblico dal 130% al 60% sul Pil, restituendo ai mercati un ventesimo della somma ogni anno. Una scalata vertiginosa: o si procede a un aumento robusto della crescita (oltre il 2,3% annuo) oppure si condannano gli italiani nati dal 1980 in poi a una vita grama, con un reddito disponibile largamente inferiore a quello che gli italiani hanno conosciuto nel dopoguerra.
L’intervento a gamba tesa delle banche centrali, dunque, non è un sintomo di salute. Semmai, l’esatto opposto: la ripresa americana e i segnali di crescita del Giappone sono gli unici lampi. “Fino a ieri – ha scritto Wolfgang Munchau sul Financial Times – ero convinto di essere il più pessimista sulle sorti dell’Eurozona. Mi sbagliavo: Mario Draghi lo è di più, altrimenti non avrebbe lanciato un messaggio così”.