Secondo il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, la ripresa in Italia si vedrà a fine anno. Per Carlo Buttaroni, sociologo e presidente di Tecnè, “il risanamento delle finanze pubbliche continua a essere l’unica priorità, nonostante le ricette sinora diffuse non solo hanno dimostrato di non essere in grado di curare la malattia, ma sviluppano resistenze a ogni nuovo approccio che potrebbe veramente contribuire a un’uscita reale dalla crisi attuale”. Ma soprattutto “per uscire dalla crisi occorre dare uno stop alle politiche del rigore che alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario”. IlSussidiario.net gli ha chiesto di commentare (in diverse puntate) i risultati di una recente indagine condotta dal suo istituto di ricerca sulle prospettive a medio-lungo termine dell’economia italiana, i cui risultati sembrano diversi da quelli di Saccomanni.



Di recente il suo istituto ha elaborato alcune stime sul medio-lungo periodo. Partiamo da qui.

E’ evidente che le politiche del rigore e le restrittive condizioni del credito hanno prolungato la recessione. Stimiamo che la congiuntura negativa continuerà per tutto il 2013 e l’anno potrebbe chiudersi con il Pil al -1,8%, segnando, quindi, nove trimestri negativi.



Quando si vedranno i primi segnali di ripresa?

I primi segni di tiepida ripresa si vedranno soltanto nel 2014. Tuttavia non coincideranno con un miglioramento dell’occupazione, che invece continuerà a scendere fermandosi sotto la soglia dei 22,5 milioni di occupati, con un saldo negativo di oltre 400 mila posti di lavoro rispetto al 2012, mentre il tasso di disoccupazione dovrebbe salire al 12,1% quest’anno e al 12,6% nel 2014.

Il tessuto imprenditoriale italiano sta sprofondando. Costruzioni, commercio e attività manifatturiere sono i settori più colpiti. A pagare il prezzo più caro sono gli artigiani: 21.185 le attività che tra gennaio e marzo sono mancate alla contabilità del settore. Come se ne esce?



Purtroppo, l’austerità forgiata nei laboratori di Bruxelles, oltre all’inefficacia, sta mostrando anche tutti i suoi drammatici effetti collaterali con i danni che, oggi, sono sotto gli occhi di tutti.

Il rigore ha peggiorato le cose.

Rispetto al 2007, il tasso di disoccupazione è raddoppiato e solo un giovane su cinque trova lavoro. Inoltre, tra gennaio e marzo di quest’anno, secondo i dati Unioncamere, hanno chiuso i battenti quasi 150 mila attività. Un risultato peggiore persino rispetto a quello del primo trimestre 2009, considerato l’anno nero della crisi. In più…

In più?

Non c’è alcun dato che suffraga l’idea che l’austerità porti a un “secondo tempo” di espansione economica. D’altronde se Pil e occupazione dipendono dalla domanda, occorre incrementarla, non comprimerla.

Come?

Occorre aumentare la dotazione economica dei cittadini, in particolare delle fasce a basso reddito. Aumentare di 100 euro il reddito di un lavoratore che guadagna 1000 euro significa incrementare la domanda di circa 90 euro, mentre aumentare della stessa quota chi ha un reddito di un milione non produce effetti rilevanti.

Cosa deve fare lo Stato?

In una fase recessiva, lo Stato deve fare ciò che l’economia privata, da sola, non riesce a fare. Il new deal rooseveltiano investì sui lavori pubblici come antidoto alla crisi: strade, scuole, ferrovie, ospedali. In un periodo di crisi come quello attuale, la priorità deve essere la crescita economica e l’occupazione.

 

Di cosa ha bisogno l’Italia per rilanciare l’economia?

Nel nostro Paese si avverte la necessità di una politica industriale, senza la quale il mercato europeo rischia di diventare una minaccia, anziché un serbatoio di opportunità con i suoi 500 milioni di consumatori e 20 milioni di imprenditori.

 

Nel nostro Paese manca da molti anni una politica industriale.

Vero, tanto che, in un quinquennio, il numero delle imprese è diminuito del 15% e si sono perse posizioni importanti dal punto di vista della competitività, nonostante la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto.

 

Senza sostenere l’industria è impensabile uscire dalla crisi

Nel bene e nel male il settore industriale resta il motore della nostra economia: un lavoratore su quattro è occupato nell’industria e una quota analoga di lavoratori è impegnata nei servizi destinati alle imprese. Inoltre, circa l’80% delle attività di ricerca e sviluppo è promosso da imprese industriali. È ovvio che l’industria rappresenti il punto chiave per la ripresa economica del nostro Paese.

 

Anche prima della crisi il nostro sistema industriale dava però segni di debolezza, no? 

Fino al manifestarsi della crisi di questi ultimi anni, il sistema industriale italiano, in particolare il mondo delle Pmi, ha dato buona prova di sé. Non solo nei settori più tradizionali del made in Italy, ma anche in quelli ad alto valore scientifico e tecnologico, come il farmaceutico e l’ingegneristico.

 

Oggi le nostre Pmi sono in gravi difficoltà.

Sono le più colpite dalla crisi, non tanto perché sono singolarmente deboli, quanto per la fragilità degli argini che il sistema è stato in grado di offrire. Ciò ha comportato un rapido collasso della produzione, cui ha fatto seguito un momentaneo recupero e una seconda crisi, altrettanto acuta, aggravata dal crollo dei consumi interni e dalle scelte di politica fiscale che hanno fatto crescere la pressione sul settore.

 

Servono cambiamenti.

Affinché il nostro sistema industriale possa ripartire e riprenda a competere servono cambiamenti strutturali nei modelli produttivi e nelle regole del gioco. Tanto più che se ci si interroga sul da farsi, si scopre che l’Italia non propone un modello compiuto, un modo durevole di organizzare e praticare l’economia reale come avviene, al contrario, in altri Paesi europei, tipo Francia o Germania.

 

Rilanciare il settore industriale vuol dire rilanciare le Pmi.

Certo, sono loro che rappresentano il cuore pulsante del sistema. E, di conseguenza, non si può uscire dalla crisi senza politiche in grado di stimolarne la crescita e le necessarie trasformazioni.

 

(1- continua)