Con questa terza e ultima puntata si conclude la nostra lunga conversazione con Carlo Buttaroni sul futuro della nostra economia. Nella prima parte ci aveva detto di non essere d’accordo con le politiche di rigore seguite finora, perché “alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario”. Nella seconda avevamo parlato di salari, produttività e costo della vita. Con lui oggi affrontiamo il tema delle riforme, del ruolo della finanza e di un nuovo modo di intendere lo sviluppo.
Spesso ci si lamenta della scarsa qualità del lavoro e della mancanza di tutele. Sono lacune dettate dalla crisi o una maggiore attenzione a questi aspetti potrebbe colmare eventuali gap strutturali?
I paesi con minori tutele, si è fatto notare, fanno registrare dinamiche di produttività del lavoro più positive. Peccato che non vi sia traccia di una relazione significativa tra variazione dell’indice di protezione all’impiego e dinamica della produttività.
Quindi?
Sembrerebbe piuttosto il contrario: riducendo l’indice di protezione all’impiego si attivano dinamiche meno favorevoli alla produttività del lavoro. I paesi che hanno maggiormente ridotto le protezioni, infatti, sono quelli che mostrano dinamiche meno favorevoli, e ciò sembra riguardare soprattutto i paesi europei, dove nell’ultimo decennio sono state avviate politiche per il lavoro che, in entrata, favoriscono forme contrattuali meno stabili, e in uscita, rendono meno costosi e più fattibili i licenziamenti. È un dibattito che da alcuni anni coinvolge anche il nostro Paese.
Se ne è discusso a lungo prima dell’approvazione della riforma Fornero…
L’Italia è uno di quei Paesi dove la riduzione delle protezioni all’impiego è stata maggiore, e dove la produttività del lavoro ha visto una dinamica particolarmente negativa. Dalla fine degli anni ‘90 sono state introdotte norme che hanno progressivamente ridotto le protezioni dei lavoratori eppure si è registrata una riduzione nei tassi di crescita della produttività.
Perché secondo lei?
Si possono fare le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare l’Iva, mettere nuove tasse, istituzionalizzare l’equilibrio di bilancio, ma fino a quando non si cambierà modo di intendere lo sviluppo, il sistema sarà sempre soggetto a crisi cicliche, a oscillazioni, alla pressione dei mercati e alle speculazioni finanziarie. Probabilmente.
Probabilmente?
La crisi economica che stiamo vivendo deriva anche dall’ignorare le evidenze empiriche e da un atteggiamento ideologico di fronte alle soluzioni possibili. Il risanamento delle finanze pubbliche continua a essere l’unica priorità nonostante le ricette sinora diffuse non solo hanno dimostrato di non essere in grado di curare la malattia, ma sviluppano resistenze a ogni nuovo approccio che potrebbe veramente contribuire a un’uscita reale dalla crisi attuale.
Quale nuovo approccio?
È possibile reagire al deterioramento economico e sociale solo percorrendo un cammino di riforme, fondato sul riconoscimento del valore del lavoro e dell’impresa, del welfare e dell’ambiente, del sapere e della giustizia sociale. Per effetto della crisi cresce il divario sociale.
Crollano i consumi e la fiducia delle famiglie…
Rilanciare i consumi è una delle principali chiavi delle economie avanzate per far ripartire l’intera economia (insieme a un aumento delle esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza e il rafforzamento della classe media.
L’esatto opposto di quanto avvenuto finora…
Oltretutto la crescita della disuguaglianza coincide con un indebolimento della democrazia. Se è vero che la crisi parte da lontano e affonda le radici nella globalizzazione, è altrettanto vero che ciò che la nutre non è l’interconnessione planetaria, ma l’arretramento della politica dal governo dalle grandi questioni economiche e sociali. La fuga della politica ha avuto conseguenze pesanti. Economisti come Stiglitz, Krugman e altri, più o meno indirettamente, affondano le loro critiche proprio su questo aspetto, sull’aver sottoposto i cittadini a sofferenze incredibili sulla base di teorie e scelte sbagliate. D’altronde l’inizio del nuovo capitalismo finanziario mondiale prende avvio agli inizi degli anni ’70 con la scelta (politica) del governo statunitense di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali.
Sta suggerendo di dover mettere un freno alla finanza?
La finanza, in questi anni, ha preteso sempre più “mano libera”, rivendicando il potere di invadere i mercati con un rovesciamento dei rapporti di forza, non solo tra capitale e lavoro, ma anche tra capitalismo e democrazia. È questa la situazione che dobbiamo ribaltare se vogliamo realmente uscire dalla crisi: dare uno stop alle politiche del rigore che alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario.
Cioè?
Occorre il coraggio di capovolgere i paradigmi che hanno guidato le scelte di politica economica negli ultimi anni, mettendo al centro la questione sociale, il lavoro, i diritti. E per fare questo è necessario un passo avanti della politica. Forse occorre persino una nuova Bretton Woods. E questa sì, sarebbe una rivoluzione.