L’Italia, ahimè, ha ormai fatto il callo a warning, tagli di rating e allarmi di vario genere in arrivo dalle istituzioni internazionali. A partire dalle famigerate agenzie di rating che, nella mentalità di certa classe dirigente nostrana (ben rappresentata in magistratura), altro non sono che il braccio armato e prezzolato della speculazione internazionale, così impudente da legare il taglio del giudizio su buona parte del sistema bancario al blackout dell’economia italiana, la meno capace a reagire alla crisi. “Le banche italiane – scrive S&P’s – operano in un ambiente con alti rischi economici, lasciando le banche più esposte a una recessione più profonda e lunga di quanto pensavamo. Il Pil dell’Italia, dopo il -1,9% previsto per il 2013, avrà segnato un calo in termini reali del 9% negli ultimi sei anni”, con un -25% per gli investimenti e un prodotto pro-capite inferiore ai livelli del 2007. Per giunta, “non ci aspettiamo che questa tendenza si inverta significativamente nel 2014”.



Un giudizio secco, che non nasconde complotti. Così come la classifica della Banca Mondiale sulla competitività in cui l’Italia figura al posto numero 73. Eppure, come ha detto il capo economista della Bce Peter Praet, questo risultato (vero, mica l’ennesimo complotto…) è davvero paradossale: “Vedo che in Italia le risorse ci sono – ha dichiarato a Il Corriere della Sera -, come ci sono le analisi di quanto è necessario attuare, ma quello che manca ancora è la capacità di trovare un consenso, una soluzione decisa di comune accordo per trovare una soluzione ai problemi”. Si aggrava così una crisi che gli storici avranno difficoltà a decifrare: com’è possibile che un Paese “con molte risorse, ricchezza, creatività, con università, sistema scolastico e cultura eccellenti” non sia in grado di attuare riforme elementari, sulla base di una diagnosi ormai largamente condivisa – troppe tasse, tagli di spesa concentrati là dove non era il caso di tagliare, ovvero infrastrutture e ricerca, compensati da aumenti là dove era il caso di risparmiare, ovvero la spesa corrente?



Una situazione paradossale, aggravata dall’insorgere di riflessi condizionati nel cuore della classe dirigente: le cosiddette forze riformatrici schiave del pregiudizio che “la Costituzione più bella del mondo non si tocca”; una Corte Costituzionale che, sostenuta da questo feeling, in un mese soltanto, come recita un felice tweet di Massimo Nicolazzi ha salvato le Province superflue, gli stupratori in branco e i Governatori dissestati. Unica condannata la Fiat per l’esclusione della Fiom da Pomigliano d’Arco. Un blocco sociale che contribuisce a frenare, per quel che può, la ripresa dell’industria vista comunque con estremo sospetto, come una lunga processione di tanti misfatti ambientali.



Celebriamo la ripresa Usa, che pur tanto deve allo sfruttamento dello shale gas. Ma in casa nostra adottiamo ben altri criteri. Come ha scritto Alberto Clò, “escludendo i paesi ricchi del Mare del Nord, in Europa siamo primi per riserve di petrolio e quarti per quelle di metano: il loro ottimo sfruttamento consentirebbe di quasi raddoppiare la produzione interna di idrocarburi da 12 circa 22 milioni di tep (tonnellate equivalenti di petrolio). Cosa altrove normale, a noi quasi impossibile. Di fatto la scelta dell’Italia è stata quella di preferire le importazioni alla produzione interna, cioè i paesi e le compagnie da cui importiamo, piuttosto che le imprese che lavorano in Italia. Mentre gli altri paesi si affannano a ricercare, scoprire, produrre, noi ci affanniamo a impedirlo”. E così, nel 2011, si sono perforati in attività esplorative 715 metri contro i 7 mila del 1946, nonostante i pochi mezzi finanziari e la tecnologia povera del dopoguerra.

Eppure, sempre secondo Clò, potremmo ridurre in dieci anni la “tassa” con l’estero di 50 miliardi, destinando queste risorse alla crescita interna; destinare al fisco 25 miliardi (sei Imu, tanto per un paragone); ridurre la bolletta petrolifera di sette punti. Numeri quasi blasfemi per una classe simil-dirigente che, interpretando gli umori della “gente”, evita di affrontare le responsabilità nei confronti delle prossime generazioni.

È questa la cornice in cui, di qui a pochi giorni, si celebrerà la “ripresa”, anticipata dagli ordinativi dell’industria. Il dato destagionalizzato dell’indice è cresciuto infatti nel maggio 2013 per il terzo mese consecutivo, con un guadagno cumulato del 5,9% rispetto al minimo del febbraio 2013. Il livello degli ordini rimane pur sempre di 10 punti al di sotto rispetto al livello del maggio 2011 (più o meno il punto massimo prima dell’attuale recessione). Se gli ordini sono ripartiti in marzo, la ripresa del Pil dovrebbe arrivare circa sei mesi dopo, su per giù in settembre. Ma in assenza di interventi forti sarà comunque una ripresa dimezzata. O, quel che è peggio, destinata ad allontanare sempre di più le due Italie.

Da una parte le imprese che vendono all’estero, già tornate al di sopra dei livelli di maggio 2011 e che si avviano a raggiungere il livello record pre-crisi del febbraio 2008. Dall’altra quelle che operano sul mercato interno: anche qui gli ordini sono in crescita ma risultano inferiori del 15% rispetto alla metà del 2011 e addirittura del 35% rispetto ai valori pre-crisi. Le aziende export oriented già si stanno spostando verso gli Stati Uniti e gli altri mercati che tirano (Russia, Est Europa, Medio Oriente, nord Africa). Da loro può arrivare l’ossigeno per la bilancia commerciale e dei pagamenti, premessa indispensabile per il risanamento dei conti del Paese. Ma le aziende globali hanno sempre più bisogno di delocalizzare segmenti di produzione e fornitori e quindi finiscono per creare meno occupazione a casa.

Per creare occupazione occorre un robusto aiuto al resto dell’apparato industriale. Ovvero lo Stato saldi in fretta una buona parte dei debiti della Pubblica amministrazione, riporti il credito alle aziende offrendo garanzie sui prestiti bancari deteriorati e indichi un percorso di riduzione delle regole e del peso fiscale sul lavoro. E si abbia il coraggio di indicare i primi responsabili del degrado: chi salva gli enti inutili o le gestioni indecenti della finanza pubblica, ovvero sabota in vario modo i tentativi per tagliare una spesa impazzita. Magari in nome di una Costituzione che, a detta dei costituzionalisti, non è mai stata “la più bella del mondo”. Con buona pace dei comici e degli altri burocrati dalle consulenze e dalle pensioni dorate.