Panebianco ha recentemente evidenziato su Il Corriere della Sera come uno dei grandi problemi dell’Italia sia la burocrazia. Io non solo sono d’accordo con lui, ma sono convinto che la burocrazia sia il primo e principale ostacolo sia per la ripresa economica, sia per la dignità della nostra vita sociale e individuale. La burocrazia è l’espressione del tecnicismo di cui la nostra società è stata resa schiava da almeno vent’anni. Le imprese si affidano ai manager super tecnici, che con le loro super gestioni manageriali, condite con le stock option, hanno portato molte imprese alla deriva. Anche la politica non si è fatta mancare nulla con i famosi governi tecnici, che avrebbero dovuto saper far meglio della politica…. e sappiamo come è andata a finire. E come non pensare al disastro che hanno innestato e continuano a innestare nella nostra economia i tecnici della iperburocratica Comunità europea che da Bruxelles dispensano regolamenti e furbate in continuazione. E, dulcis in fundo, la nostra macchina amministrativa pubblica che insieme alla magistratura ha completamente ingessato il nostro Paese tanto da poter tranquillamente parlare di oppressione dell’intero corpo sociale, salvo quello dei burocrati, imperterriti, intoccabili, non pagano mai dazio, si riciclano e prima o poi riemergono. Questo apparato è la vera casta in Italia che si auto-riproduce e governa.
E come fa? Attraverso la produzione delle norme con cui limita, vieta, consente, complica, distingue. Sia attraverso il Parlamento, incapace spesso di opporsi alla iperproduzione dei ministeriali, sia attraverso decreti, regolamenti, circolari che spesso, facendosi beffe delle stesse leggi, in realtà vanno oltre i limiti che le leggi stesse pongono. Con la Legge di stabilità del 2011 c’erano oltre 200 decreti di attuazione, uno spasso per i burocrati, lavoro garantito per anni, per loro, e pene per noi dopo. Pene perché questi burocrati, quando pensano e agiscono, non considerano la realtà per come veramente è e in tal modo per noi imprenditori e cittadini agire, produrre, lavorare diventa un’avventura che, in un periodo di crisi come questo, demoralizza.
Qualche mese fa mi sono trovato nella necessità di sottoporre a un importante “tecnico” di un ministero il cambiamento di una norma appena introdotta che impedisce a diversi soggetti di operare correttamente nel loro mercato, anzi li condanna a chiudere. I termini sono così evidenti e sacrosanti che il ministeriale in questione ne condivideva la correzione, ma incredibilmente non prese su di sè il problema, per esempio riscrivendo la norma e proponendola in un provvedimento, ma si è limitato semplicemente a consigliarmi come riscriverla, facendomi una lezione di diritto che ovviamente ho fatto fatica a seguire. Comunque, dopo aver capito che cosa dovevo correggere, gli ho chiesto se potevo rivederlo, anche per un confronto: a quel punto sono stato velocemente liquidato e invitato a parlare con altri. Altri chi? La sua responsabilità finiva lì. A quel punto ho argomentato che lui risponde al popolo (un po’ demagogicamente) e se quella nuova norma consentirà di non far chiudere delle aziende, e quindi evitare la perdita di posti lavoro, in questo consiste la sua responsabilità vera, tutto il resto è strumentale.
Ecco il punto. A chi risponde la burocrazia? Su quali basi agisce? Con quali criteri e morale si muove? Ovviamente bisogna distinguere. Ci sono persone che all’interno della macchina burocratica hanno ben presente il bene comune e, soprattutto, le conseguenze degli atti che producono. Ma anche loro stessi sono ingabbiati dai veti incrociati di altri uffici che hanno qualcosa da dire e normalmente in Italia, grazie alla impostazione “tremontiana”, quasi tutto passa dal MEF (ministero dell’Economia e della Finanze).
Tutti pongono veti e pochi si prendono la responsabilità. E poi c’è un altro fattore critico. È la numerosità dei settori burocratici, ognuno dei quali deve dire la sua, se no cosa ci stanno a fare? Per cui le norme devono tenere conto delle osservazioni di tanti. Questo meccanismo è micidiale ed è la prima causa di auto-riproduzione della casta.
Come imprenditore, in un momento drammatico del Paese come questo, non posso limitarmi ad analizzare la situazione e tanto meno a lamentarmi, ma sono portato a proporre soluzioni che possono arginare questo strapotere della macchina burocratica. Non è facile, ma penso che possano essere fatte alcune scelte di lungo periodo, altre di breve. Nel lungo periodo, per esempio, sarebbe opportuno privilegiare una scelta di massimi burocrati del Paese che non siano solo giuristi, ipotesi già formulata da altri ben più titolati di me. Si potrebbero prediligere alti dirigenti che abbiano avuto esperienze di lavoro in ambiti diversi dall’amministrazione pubblica, che possano dunque capire meglio i problemi del mondo produttivo e sociale. Non ce l’ho ovviamente con i giuristi, ma ho l’impressione che occorra controbilanciare un certo “bizantinismo” che è diventato predominante nei meccanismi e nei linguaggi della cosa pubblica. Occorrerà inoltre riformare la pubblica amministrazione eliminando i troppi passaggi intermedi.
Ma nel breve periodo, anche per dare un forte segnale di cambiamento e per facilitare i percorsi di cui sopra, sarebbe veramente opportuno introdurre la cassa integrazione per la Pubblica amministrazione, anche permanente e/o la mobilità reale. Non penso ovviamente alle misure greche di licenziamento delle persone, ma qui il problema è salvaguardare i corpi sociali da un certo attivismo della burocrazia, che per il fatto che esiste deve pur far qualcosa producendo atti.
Inoltre, sempre nel breve periodo sarebbe conveniente eliminare la dipendenza dal MEF: oggi tutti gli atti parlamentari, e non, devono passare sotto la forca caudina degli uffici ministeriali del MEF. È come se tutti gli atti di una azienda dovessero passare dal direttore amministrativo. In un periodo di crisi essere gestiti da un direttore amministrativo può essere devastante, occorre che i politici in questo abbiano il coraggio di recuperare la loro funzione, sottraendola dal cappio della burocrazia di cui loro stessi sono vittime. E, ahimè, anche noi con loro.