«Dal 1992 a oggi lo Stato ha accumulato 1.200 miliardi di euro di debiti in piena epoca di privatizzazioni. Nei 40 anni precedenti il debito pubblico era stato pari a 839 miliardi di euro». Ci tiene a precisarlo Paolo Cirino Pomicino, ex ministro del Bilancio del governo Andreotti. A giugno Bankitalia ha certificato un nuovo record del debito pubblico, salito a 2.075,1 miliardi di euro. L’aumento è dovuto alle disponibilità liquide del Tesoro, cresciute di 13,9 miliardi di euro, che hanno annullato l’effetto benefico dell’avanzo della Pubblica amministrazione pari a 13,5 miliardi di euro. Per Cirino Pomicino, «la madre di tutte le battaglie è che se non si aumentano le entrate pubbliche il debito continuerà a crescere. E la strada maestra per aumentare le entrate rilanciando l’economia è vendere 100 palazzi da 100mila metri quadrati appartenenti alla pubblica amministrazione».
Di recente le entrate fiscali sono aumentate, eppure il debito pubblico ha raggiunto il livello record di 2.075,1 miliardi di euro. Dove vanno a finire i soldi che paghiamo con le tasse?
Servono per finanziare la spesa pubblica. Quest’ultima per quanto riguarda la voce in conto capitale è in calo, mentre è in crescita per quella corrente, che è composta dagli interessi sul debito e dalle uscite per il funzionamento delle grandi amministrazioni centrali dello Stato, degli enti locali e del settore sanitario. Il debito pubblico cresce perché aumenta la spesa naturale, sia per il tasso di inflazione che per l’acquisto di beni e servizi. Non nego che ci siano degli sprechi, ma lo Stato dovrà pur comprare la benzina per fare andare le volanti della polizia.
Qual è quindi il vero problema?
Il vero dato è che dal 1995 l’Italia non cresce. In 18 anni, solo il 2001 ha segnato una crescita al di sopra del 2%. Nello stesso arco di tempo, il tasso di incremento annuo della produttività del lavoro ha visto il nostro Paese all’ultimo posto in Europa. Con la riduzione degli investimenti pubblici, l’aumento delle tasse del 4% e la scarsa produttività da lavoro per una scarsa innovazione, si è creato il paradosso di bassi salari, bassa crescita, alto costo del lavoro e alta pressione fiscale.
Lei che cosa propone?
Dobbiamo affrontare la “madre di tutte le battaglie”. Dal 1992 a oggi c’è stato un aumento del debito pubblico di oltre 1.200 miliardi di euro. Mentre nei 40 anni precedenti il debito è stato pari a 839 miliardi di euro. Con quel debito tra gli anni 50 e 80 si è fatta crescere l’Italia mentre lo Stato combatteva il terrorismo e l’inflazione a due cifre. Oggi invece non si riesce a mettere mano a una manovra complessiva che favorisca la crescita, e ciò è la vera causa del debito pubblico: se non si aumentano le entrate, il buco si ingrandisce sempre di più.
Ritiene che per aumentare le entrate occorra privatizzare? Come è possibile farlo senza svendere?
Privatizzare non è la strada per risanare il debito pubblico. La privatizzazione selvaggia serve solo al capitalismo internazionale per fare shopping nel nostro Paese. Dal 1992 al 2002 abbiamo venduto aziende pubbliche per 160 miliardi di euro, eppure in un ventennio il nostro debito è aumentato di 1.200 miliardi. L’Italia non ha dunque risolto nulla, ma ha soltanto venduto pezzi importanti di argenteria che garantivano dividendi di un certo livello.
Qual è allora la strada maestra per risanare il debito pubblico?
Vendere il patrimonio immobiliare dello Stato. Mettendo sul mercato 100 palazzi da 100mila metri quadri appartenenti alle pubbliche amministrazioni centrali, si ricaverebbero 40 miliardi di euro. Di questa cifra basterebbe tenere da parte 6 o 7 miliardi di euro per pagare gli affitti nei primi tre anni. In questo modo si avrebbero a disposizione oltre 30 miliardi per rilanciare le attività produttive nel nostro Paese.
Con quali risultati?
La conseguenza sarebbe che il nostro Pil crescerebbe del 2% e il Fisco incasserebbe 12 miliardi di nuovo gettito in tre anni. Lo Stato avrebbe sì un esborso di 2 miliardi in più l’anno in affitti, ma l’economia ripartirebbe e l’incremento del gettito fiscale farebbe guadagnare una cifra molto più elevata.
(Pietro Vernizzi)