Ricordo, mentre ero tra i volontari che aiutavano i friulani a rimettersi in moto dopo il terremoto del 1976, un agricoltore-artigiano che con mani insanguinate disseppelliva da sotto le macerie del suo garage uno strano marchingegno. Si mise a lavorare subito, sfornando pezzi di metallo molto, come dire, disegnati. Diventammo amici perché trovai un modo di portargli corrente elettrica. Una sera a cena un suo cugino arrivato dall’Australia per dare una mano gli chiese: “Ma perché non fabbrichi e vendi la macchine invece dei pezzi?”. Il protagonista si grattò la testa e a sua volta chiese: “E chi me le vende?”. L’altro: “Io, in Asia, Giuseppe, l’altro cugino, in America”. E Anna, la moglie? Farà i conti e imparerà l’inglese. Oggi l’azienda è globale e fa meccanismi industriali automatizzati sartorializzati.



A nord di Vicenza, materiali forgiati: si entra nell’impresa e si vedono riconoscimenti come miglior fornitore dalle principali aziende globali che fanno grandi sistemi. Dopo la stretta di mano con il “paron” indico le targhette. Questi, alzando le spalle come per schernirsi: “Cosa vuole prof, qui c’è una tradizione industriale di secoli, le cose le sappiamo fare bene e da tutto il mondo ce le chiedono”.



Appena fuori Mantova, stessa scena, ma dall’azienda esce un funzionario dell’Onu ed entra un ambasciatore. È la principale fornitrice mondiale di potabilizzatori mobili: 70 addetti. L’imprenditore mi chiese consigli per ricapitalizzare l’azienda allo scopo di farla crescere di più. Mi consultai con colleghi dei fondi di investimento. Ma questi pensarono che li prendessi in giro perché non credevano che un’impresa così piccola potesse avere tale posizione di mercato e con tanta efficienza e capacità tecnologica.

Macedonia, ufficio di un gruppo finanziario privato. Mi siedo e l’occhio cade sull’etichetta della sedia: fatta a Verona. Da chi? Un’azienda con meno di tre milioni di fatturato. Come diavolo sarà riuscita ad arrivare a vendere lì? Tornato a Verona scovo il ragazzo e glielo chiedo. “Bisogna darsi da fare, il mercato interno degli arredi è fermo, un giorno ho preso l’auto e sono andato fuori, a naso e inventando”.



Vicinanze di Tokyo: dopo un vero e principesco Sashimi, un collega nipponico al vertice di un enorme gruppo tecnologico mi chiede, imbarazzato, accesso a un’azienda italiana di robotica: “Come fanno le mani artificiali quelli non le fa nessuno al mondo”. Brescia, capannone che fa mezzi speciali. L’imprenditore: “Tutto quello che mi serve, anche meccanica super raffinata e progettisti per cui non esistono problemi, ma solo soluzioni, lo trovo nel raggio di 50 km”.

Potrei andare avanti per molte pagine così, ma queste annotazioni penso bastino per sostenere l’immagine di un’Italia dotata di una particolare cultura industriale, diffusa, e di un’attitudine commerciale come in nessun altro posto al mondo. Quanto forte sul piano concreto delle prestazioni industriali e finanziarie?

In un seminario dove presentavo il potenziale industriale italiano e la sua peculiarità, i toni prevalenti – nelle parole dei colleghi docenti e dei politici – erano del tipo “va difeso”. Osai dire, invece: “Basta lasciarlo libero”. Gli imprenditori presenti vollero stringermi la mano, allegramente rumorosi, fortissimi: “Lo dica ancora, ci serve solo più libertà e non tutele”. È infatti un cultura fortissima, che un giorno su un quotidiano mi permisi di descrivere così: un misto tra anarco-capitalismo, cultura cristiana della cooperazione e audacia mercantile, forse eredità delle Repubbliche marinare.

Ma essere forti non vuol dire poter fare tutto da soli. Questa miracolosa capacità delle nostre piccole industrie sia di fare prodotti esclusivi, sia di andare per il mondo a venderli ha bisogno di sostegni sofisticati: un ciclo fluido di relazioni tra università e impresa, strumenti finanziari e assicurativi evoluti, ecc. Da un lato, le imprese internazionalizzate italiane mostrano capacità insospettabili, che i visitatori stranieri sintetizzano nel termine: magica flessibilità. E così spiegano come mai in un territorio caratterizzato da alti costi dell’energia, della logistica, delle procedure burocratiche e legali, oltre che da un fisco vampiro, le nostre imprese riescono a essere competitive. Ma attenzione a non creare un mito pericoloso: il mercato globale richiede sempre più competenze e forme complesse di organizzazione che potrebbero nel futuro non essere più alla portata della piccola impresa.

Resteranno solo le grandi? Bisognerà chiedere chissà quali interventi di mamma Stato? No, le piccole imprese, per crescere e conquistare, hanno bisogno di servizi evoluti che integrino quello che non hanno e non potrebbero avere in base alla scala, attraverso le associazioni di settore. La chiave della competitività futura dei nostri piccoli vascelli bucanieri, oltre che nella loro singola capacità di bordare bene le vele, sta proprio nella capacità di queste associazioni di diventare sempre di più veicoli di internazionalizzazione. I dati correnti fanno ben sperare che ci siano sempre più vele per prendere più vento.

 

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