Nel pacifico e assolato sabato 17 agosto sono arrivate, quasi contemporaneamente, quattro notizie in buona misura contraddittorie, specialmente se lette superficialmente: a) il supplemento del più diffuso quotidiano italiano (Il Corriere della Sera) sosteneva che “i numeri ci mettono sulla strada dell’ottimismo”, citando, in particolare, l’aumento dell’export nel 2012 (4,2%) e quello previsto per il 2013 (3,2%); b) più sobriamente il britannico The Economist riportava i dati dell’Eurostat sull’andamento delle economie europee nel secondo semestre 2013 – quelli che hanno fatto parlare di “ripresina” trainata da Germania e Francia. L’Italia risulta terz’ultima in graduatoria – dopo avere perso circa dieci punti percentuali di Pil dal 2007-2008; c) un comunicato dell’Organizzazione Mondiale del Commercio informava su chi saranno i quattro vice direttori generali che affiancheranno Roberto Azevêdo dal primo settembre. Scelti con un “manuale Cencelli” globale, nessuno ha la reputazione di essere un indefesso sostenitore del libero scambio e della rimozione delle barriere al commercio internazionale; d) l’Annual Review of Economics diramava ai propri abbonati l’anteprima di un saggio il cui titolo fa accapponare la pelle The Great Trade Collapse (Il Grande Tracollo del Commercio) (qui il link per scaricarlo a pagamento). Ne sono autori Rudolfs Bems (Fondo monetario e Bce), Robert Johnson (Dartmouth College) e Key Mu Yi (Federal Reserve Bank di Minneapolis) – ossia tre autorità del ramo.



Cerchiamo di spiegare questo puzzle. In primo luogo, dalla fine degli anni Ottanta l’export ha cessato di essere il motore dell’economia italiana. Quando lo è stato, dal “miracolo economico” a quasi un quarto di secolo fa, i suoi campioni non erano il lusso e l’agroalimentare di pregio (che riguardano come i vini di Borgogna un frammento stabile ma limitato del mercato mondiale). Nella metalmeccanica si chiamavano Fiat; nell’industria per la casa Merloni, Candy, Ignis e Zanussi; nel tessile Marzotto; nell’elettronica, Olivetti. E via discorrendo. Imprese oggi in crisi o sparite.



In secondo luogo, in quindici anni la quota del made in Italy nel mercato mondiale si è dimezzata: l’aumento dell’export italiano nel 2012 (4,2%) e quello previsto per il 2013 (3,2%) rappresentano ulteriori perdite di quote del mercato mondiale che nel 2010 è cresciuto del 13,8%, nel 2011 del 5%, nel 2012 del 3,7% e nel 2013 (stime) del 3,5%. Quindi, c’è poco da stare allegri.

Ovviamente ce ne ancora meno se siamo alle soglie del “grande tracollo” causato da due determinanti: da un canto la riduzione delle spese aggregate per beni durevoli oggetto di commercio internazionale e un aggiustamento “massiccio” delle scorte accumulatesi in questi anni ; da un altro, il fallimento del negoziato multilaterale Doha Development Agenda (iniziato nel 2001!) e la stanchezza con cui alcuni Stati europei (Francia e Italia, in primo luogo) stanno affrontando la trattativa per la Transatlantic Partnerhip (la vasta zona di libero scambio tra Nord America ed Europa). La “ripresina” che alcuni vedono all’orizzonte subirebbe una frenata.



Il “grande tracollo” potrebbe smorzare le flebili speranze relative all’export mentre la domanda interna ristagna (e rischia di contrarsi) a ragione in gran misura di un potere d’acquisto che non cresce ma si riduce.

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