È dal 2003 che Corrado Passera partecipa al Meeting di Rimini, prima come Ceo di Intesa Sanpaolo, l’anno scorso come ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture. Non mancherà nemmeno quest’anno all’appuntamento con la kermesse. E prima di partire alla volta della riviera romagnola ha concesso a ilsussidiario.net una lunga intervista a 360 gradi in cui ha parlato di politica, economia e banche.



Cominciamo dal titolo dell’incontro cui partecipa a Rimini “Politica ed economia: esiste un rapporto virtuoso?”. Qual è la sua risposta?

Se economia e politica sanno lavorare bene insieme costruiscono il bene della società; se invece non riescono a cooperare efficacemente si mette a rischio la crescita e l’occupazione del Paese, come succede da tanto tempo in Italia. Occorre quindi un impegno comune, naturalmente nel rispetto delle reciproche responsabilità. Se alle imprese chiediamo di diventare più competitive, dall’altra parte la politica ha il compito di creare un contesto che riduca gli svantaggi competitivi e favorisca la crescita. Non sta alla politica decidere dove le imprese devono investire, ma sta alla politica dare norme comprensibili e stabili nel tempo, alleggerire e velocizzare le procedure burocratiche, disegnare un fisco che premi lavoro e investimenti, assicurare infrastrutture adeguate, garantire costi energetici competitivi, e così via. Imprese e Sistema Paese vincono o perdono insieme.



Cosa pensa del quadro politico attuale, dove non mancano fibrillazioni che possono avere effetti negativi sull’economia?

Siamo in uno dei momenti di maggiore difficoltà del nostro Paese: basti pensare ai 9 milioni di italiani che non hanno lavoro, sono cassaintegrati o hanno un lavoro insufficiente al proprio sostentamento. Insieme ai loro famigliari sono la maggioranza della popolazione. Non abbiamo mai avuto negli ultimi decenni un disagio sociale così ampio. Quando la maggioranza di un Paese ha paura, tutto può succedere: nella migliore delle ipotesi tutto rallenta. Tuttavia, di fronte a questa situazione, i partiti continuano a occuparsi di questioni interne e spesso personalistiche o di temi quasi irrilevanti, che non incidono e non fanno la differenza rispetto alle prospettive del Paese. Non è quindi tanto una questione di fibrillazioni: l’iniziativa politica mi sembra piuttosto in una situazione che si potrebbe definire “mortifera”, di non azione rispetto ai problemi del Paese.



Qual è il suo giudizio sull’operato del Governo Letta?

Quando in un Paese si decide di dar vita a un governo di larghe intese, ci si aspetterebbe che un’opportunità del genere venisse colta per affrontare problemi strutturali. Al momento dobbiamo invece prendere atto che, al di là della buona volontà del Presidente del Consiglio, ci troviamo di fronte a un Governo che finora ha solo posticipato decisioni importanti o è rimasto bloccato a causa dei veti contrapposti della propria maggioranza. Così è praticamente impossibile adottare le riforme di cui il Paese ha urgentemente bisogno. La politica mi sembra più impegnata a prepararsi alle prossime elezioni piuttosto che a fare cose importanti per risanare e rilanciare il Paese. Le famiglie e le imprese se ne rendono conto e, di conseguenza, crescono la sfiducia e il disincanto per le istituzioni, l’Europa e la stessa democrazia.

In effetti, lo stesso Premier ha già parlato dei rischi di un “autunno caldo” per il nostro Paese, con una lieve ripresa non accompagnata da un assorbimento della disoccupazione. Lei cosa ne pensa?

Se continueremo a non fare ciò che serve per l’economia, cioè un massiccio intervento di breve periodo e un radicale programma di riforme, avremo ben più di un autunno caldo, ma avremmo stagioni sempre più calde: inverno, primavera e così crescendo. Le riserve di tantissime famiglie e di tante imprese sono finite o stanno per finire: pensiamo a quei 9 milioni di italiani di cui parlavo prima. Una situazione criticissima. I piccoli e timidi segnali di ripresa che si intravvedono riguardano prevalentemente altri paesi più dell’Italia. Guai a pensare che il peggio sia passato e che un nuovo ciclo positivo in altri paesi ci risolverà i nostri problemi. Siamo ancora lontanissimi dal cambio di trend necessario per ricreare occupazione, che è la nostra vera emergenza.

 

Come ministro dello Sviluppo da una parte e delle Infrastrutture dall’altra si era molto impegnato per rilanciare gli investimenti sia pubblici che privati. Ci è riuscito?

Avevo promesso 50 miliardi di infrastrutture strategiche sbloccate e finanziate dal Cipr e ci siamo riusciti. Così pure è stato, per esempio, per il Piano Città. Sull’innovazione siamo riusciti a introdurre un’ottima normativa sulle start-up e abbiamo introdotto il credito di imposta per l’assunzione dei “cervelli”, ma non sono riuscito a convincere i miei colleghi su un grande credito di imposta per gli investimenti in Ricerca e Innovazione. È un impegno sempre più urgente perché il calo del Pil è legato soprattutto al crollo degli investimenti e il miglioramento del ciclo economico mondiale non deve finire solo a beneficio di altri paesi.

 

Questa lieve ripresa rischia di aver ancor meno effetti se i canali del credito resteranno a secco: come si può affrontare il problema del credit crunch?

La questione è molto seria e il problema reale e diffuso. Va affrontato senza fermarsi alla superficie o cercando soluzioni di breve termine: bisogna andare a fondo e tagliare le radici dei problemi. Faccio solo alcuni esempi. Cominciamo a liberare le imprese da quei 100 miliardi di debiti bancari “forzati” dal fatto che la Pa non paga i suoi debiti commerciali nei tempi previsti dai contratti. Forse 150 o più se aggiungiamo anche lo scaduto tra imprese: soprattutto le più grandi che non pagano puntualmente le più piccole. Su questi due punti il nostro governo ha agito, avviando lo sblocco dei pagamenti dei debiti della Pa e recependo la direttiva europea sui late payments. Ora occorre velocizzare gli interventi. Un altro intervento che ha alleggerito la posizione di indebitamento di molte Pmi è stata la cosiddetta Iva per cassa per le imprese fino a 2 milioni: si potrebbe ulteriormente estenderla.

 

Cos’altro occorre fare? Oltre a ridurre il fabbisogno di credito come si possono rendere più “bancabili” le Pmi?

Avevamo portato il Fondo Centrale di Garanzia a 20 miliardi di forza di fuoco per garantire le Pmi e renderle più facilmente bancabili: prima che le risorse si esauriscano siano adeguatamente aumentate. Il Fondo, inoltre, dovrebbe essere messo in condizione di operare anche a favore dei mutui fondiari. Le imprese sono tanto più bancabili quanto meglio patrimonializzate e quindi insisterei con l’Ace (Aiuto alla crescita economica) che abbiamo introdotto per premiare fiscalmente gli imprenditori che capitalizzano le loro imprese e ne allargherei la portata.

 

E per aumentare l’offerta di credito?

Favorirei innanzitutto nuove fonti creditizie alternative a quelle bancarie. In molti paesi il mercato del credito non intermediato dalle banche è maggioritario, mentre in Italia è ancora una piccolissima minoranza. Per superare il banco-centrismo del nostro sistema per le imprese più piccole e non quotate bisogna far crescere l’utilizzo dei cosiddetti mini-bond. Le norme che abbiamo approvato per facilitare l’accesso diretto al credito attraverso obbligazioni da mettere sul mercato e la nascita di fondi di credito possono fare una vera differenza sul mercato. Stiamo già parlando di parecchi miliardi di euro di finanziamenti raccolti e di un crescente interesse di molti investitori internazionali anche per il credito alle imprese minori.

 

Le banche italiane stanno vivendo comunque un periodo difficile. Pagano lo scotto di scelte sbagliate del passato? Oppure sono troppo severi i parametri cui sono sottoposte e dovranno sottoporsi un domani?

Cominciamo a dire che l’Italia è uno dei paesi che è passato attraverso due gravissime crisi finanziarie internazionali senza che, come avvenuto altrove, lo Stato sia dovuto intervenire per coprire gravi perdite o nazionalizzare le banche. Il sistema bancario italiano, soprattutto quello più legato all’economia reale, ha tenuto come pochi altri al mondo anche grazie a regole e controlli migliori che altrove. Quasi tutte le nostre principali banche sono adeguatamente capitalizzate. Tuttavia, anche da noi la crisi ha causato delle difficoltà evidenti: penso, ad esempio, all’esplosione delle sofferenze. È emerso il costo del cattivo credito, dovuto non tanto a errori specifici, quanto al fatto che gli attivi delle banche italiane sono concentrati in prestiti alle imprese. Mentre, come dicevo prima, si creano nuovi concorrenti sul mercato del credito, andrebbero premiate fiscalmente le banche che aumentano i finanziamento alle imprese attraverso una normativa meno penalizzante dell’attuale in tema di perdite su crediti.

 

Sempre in tema di banche e credito, Basilea 3 non sembra rendere le cose più semplici…

Basilea 3, a mio parere, ha la grande colpa di insistere, proprio nel momento più basso del ciclo economico, su parametri eccessivamente rigorosi che diventano quindi pro-ciclici, causando a loro volta un’ulteriore restrizione del credito. Le giuste critiche a Basilea 3 non devono però diventare la scusa per dimenticare problemi reali come l’insufficiente patrimonializzazione di moltissime imprese, né deve giustificare la mancanza di coraggio di talune banche commerciali nel fare la loro parte. Ma, ribadisco: esasperare in senso pro-ciclico l’adozione di parametri estremamente prudenziali nel minimo del ciclo economico non aiuta di certo a uscire dalla recessione.

 

La ripresa probabilmente dipenderà anche dalle politiche che porteranno avanti le banche centrali. Come le giudica?

La Bce ha fatto la sua parte per stabilizzare strutturalmente il sistema e per garantire la liquidità. Usa e Giappone hanno fatto anche di più e con risultati tra loro molto diversi. Il rischio bolle quando si eccede con la liquidità è sempre dietro l’angolo. Sul fronte delle monete, va detto che le altre grandi aree del mondo (dollaro, yen, yuan) hanno compiuto e continuano a compiere operazioni che tendono a spingere l’apprezzamento dell’euro rendendo quindi meno competitive le nostre esportazioni. Su questo la Bce potrebbe fare di più. Ma è una decisione politica ancor prima che tecnica.

 

Al di là della ripresa, sembra che fare impresa in Italia sia molto difficile. Marchionne ha detto addirittura impossibile. Lei cosa ne pensa?

Si tratta di affermazioni che attirano giustamente l’attenzione su problemi del Paese che vanno risolti. I nostri imprenditori hanno tanti sassi nello zaino che devono essere eliminati. Basti pensare agli alti costi della burocrazia, dell’energia, del credito, a una fiscalità che non premia tanto il lavoro e il rischio d’impresa quanto le rendite, alle rigidità di talune norme sul lavoro. Su questi fronti abbiamo impostato primi interventi, ora bisogna proseguire e accelerare sull’attuazione. Detto questo, sostenere che è impossibile fare impresa in Italia è un’affermazione del tutto eccessiva e che crea un danno incalcolabile all’Italia e agli italiani. I quasi 500 miliardi di esportazioni delle aziende italiane sono lì a dimostrare che dove c’è qualità e capacità manageriale c’è la possibilità di costruire aziende di successo, anche in Italia. Lo stesso Marchionne ha detto in diverse occasioni che quello di Pomigliano è il loro impianto più efficiente al mondo. Questa continua ricerca di scuse e motivazioni per lasciare l’Italia la trovo insopportabile e veramente ingenerosa per un Gruppo che dall’Italia ha avuto molto. Gli insuccessi dei marchi automobilistici italiani del Groppo Fiat non devono essere attribuiti, se non in parte, alle difficoltà di fare impresa in Italia, semmai alla mancanza di sufficienti e adeguati investimenti.

 

Nelle risposte precedenti ha ricordato diversi provvedimenti importanti presi dal suo governo, cui tuttavia oggi si addebita un eccessivo rigore nei conti pubblici e un’eccessiva prudenza nelle politiche economiche per la ripresa e lo sviluppo. Cosa ne pensa?

Il Governo Monti è intervenuto in un momento in cui il Paese stava scivolando e ha avuto il grande merito di evitarne il fallimento finanziario, attivando una serie di iniziative difficilissime, insieme a Parlamento e Parti sociali. Non dimentichiamoci che siamo un Paese in cui il bilancio dei primi dieci anni del Duemila è disastroso sotto tutti i punti di vista (debito pubblico, crescita economica, occupazione, andamento degli investimenti e dei risparmi). Il nostro Governo ha evitato un collasso irreparabile in un momento in cui la politica si è tirata indietro, gettando la spugna rispetto a quel che stava accadendo. Ha fatto delle cose importanti nel campo della giustizia, delle infrastrutture, dell’energia, della difesa, senza dimenticare provvedimenti innovativi come l’agenda digitale o quello sulle start-up. Per essere onesti, se riavvolgiamo il nastro di quei mesi, il Governo Monti ha avuto un grandissimo merito soprattutto nella fase finale del 2011 e iniziale del 2012. Poi, certamente, ha accusato una perdita di dinamismo e di coraggio direi dalla primavera in avanti. Dopodiché la sindrome elettorale ha prevalso su tutto e anche parte del lavoro fatto tutti insieme è stato smontato.

 

La legge impone agli ex ministri un periodo di 12 mesi in cui non possono svolgere attività lavorative in enti pubblici o privati. Quali impegni immagina nel suo futuro?

Per il momento sto usando al meglio questo periodo previsto dalla legge e sto cercando di mettere a frutto 35 anni di lavoro nel privato profit, nel pubblico e, in questo ultimo periodo, nel Governo. Ho dei progetti in testa, ma è troppo presto per parlarne.

 

(Lorenzo Torrisi)

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