L’Italia è un Paese davvero particolare, caratterizzato da potenzialità uniche nel panorama mondiale, ma anche da storture e inefficienze molto gravi. Da un lato, rappresenta un sogno per miliardi di persone che ne ammirano la cultura, la qualità della vita, le tradizioni, i paesaggi e il clima, mentre, dall’altro, è bloccato da una pletora di regole, difficilissime da rispettare perché è praticamente impossibile conoscerle tutte e per giunta sono in continuo aumento. Quando escono indici di efficienza comparata tra paesi finiamo regolarmente agli ultimi posti sul livello di corruzione, sui tempi della giustizia, sulla fiducia che i cittadini nutrono nei confronti delle varie istituzioni. Non a caso le uniche aziende che riescono a sopravvivere a questa schizofrenia sono quelle che esportano.
All’estero la creatività italiana viene apprezzata, i fornitori vengono pagati senza snervanti attese e si può avere un minimo di certezze sulle regole e formulare previsioni ragionevoli. In Italia, le tasse sono elevatissime, gli svantaggi competitivi rispetto agli altri paesi rendono problematica la sopravvivenza delle aziende. Ecco dunque il paradosso di un Paese che potrebbe esportare un modello di stile, di vita, di cultura generando un elevatissimo valore, coinvolgendo miliardi di persone e che invece sta diventando ogni giorno più incapace di provvedere anche a se stesso. Basti pensare a come stiamo retrocedendo, non solo sul piano economico, ma anche su quello politico (non riusciamo a eleggere un governo e neppure a fare una legge elettorale), non sappiamo smaltire i rifiuti, gestire le carceri, spingiamo i giovani più promettenti a emigrare mentre non riusciamo ad attirare talenti esteri perché da noi non si può arrivare in base al merito.
Un quadro così negativo ha tante concause. Anziché ripetere i soliti slogan o schierarsi pro o contro Marchionne, sarebbe interessante capire qual è il male peggiore che ci affligge, da chi è portato avanti, quali conseguenze genera e come potrebbe essere contrastato.
Il male peggiore: l’eccesso di regole – Senza regole non c’è convivenza. Le regole non sono solo utili ma indispensabili, perché altrimenti regnerebbe il caos più completo. Però, quando le regole sono troppe, continuano a crescere in modo smisurato, diventa impossibile rispettarle e si arriva a una situazione analoga a quella di essere senza regole, perché non c’è alcuna certezza sulla loro applicazione. È quello che sta avvenendo in Italia. Spesso ci lamentiamo che mancano le risorse, le competenze, una chiara individuazione degli obiettivi, ma anche quando questi fattori sono presenti spesso ci troviamo nell’impossibilità di utilizzare le risorse effettivamente disponibili.
Limitiamoci a due esempi.
1) Il Colosseo: un finanziamento di 25 milioni di euro potrebbe consentire una valorizzazione importante di un patrimonio che tutto il mondo ci invidia. Eppure dopo mesi di discussioni, conflitti di competenza, ricorsi non si è ancora riusciti a dare il via ai lavori.
2) Non riusciamo a smaltire i rifiuti che produciamo, paghiamo tariffe tra le più elevate al mondo, non riusciamo a decidere il luogo per una nuova discarica, né come gestire una vera raccolta differenziata e un ciclo integrato. Paghiamo tanto per servizi scadenti, spesso parliamo di emergenza ma non è una fatalità o un imprevisto che occorra smaltire i rifiuti. In teoria si potrebbero risparmiare molti soldi e avere un servizio migliore. Perché non ci riusciamo?
Passando da questi due esempi al caso più generale, oggi è impossibile per chiunque gestisca un’impresa, per quanto piccola, avere la certezza di rispettare le regole. Un direttore di un grande ospedale mi confidava che, per ottenere l’autorizzazione all’ampliamento, necessario per ospitare reparti avanzati e dotati di modernissime apparecchiature, è arrivato a contattare e a richiedere autorizzazioni a ben 34 Enti diversi! Come fa a essere certo che non spunti il 35esimo, pronto a vantare qualche titolarità sul processo? Com’è pensabile che il deliberato di 34 Enti così compositi ed eterogenei possa portare a decisioni non dico efficienti ma semplicemente realizzabili? E cosa fare quando qualcuno impone decisioni contrarie a quella di qualche altro Ente o, peggio ancora, richiede ulteriori approfondimenti prima di decidere? Chi mantiene i rapporti con i fornitori, chi può garantire il rispetto dei tempi e dei costi preventivati?
A chi giova? – Se siamo arrivati a questo punto vi devono essere delle forze importanti che spingono in questa direzione. Vi sono persone che non lavorano per un bene comune, ma, per motivazioni egoistiche, antepongono un loro interesse particolare al bene della collettività. L’elenco di queste persone sarebbe molto lungo e spazia dal chirurgo che privilegia la propria clinica all’ospedale in cui lavora all’impiegato comunale che si lamenta per il tanto lavoro ma se vi azzardaste a offrirgli aiuto e a ridurre la pila di documenti che giacciono sulla sua scrivania vi scuoierebbe perché sa che il suo potere risiede nel poter mettere una pratica in cima o in fondo alla pila e dunque il suo potere è proporzionale all’altezza della pila.
Tutti costoro dicono di essere al servizio dei cittadini, di essere interessati al rispetto delle leggi (al punto che ne richiedono sempre di nuove senza rendersi conto che la loro proliferazione è la prima causa del male), si ritengono puri e innocenti e accusano gli altri, “gli evasori”, di essere la causa dei mali che loro, “cittadini modello”, si sforzano di eliminare. In realtà, guadagnano sfruttando l’inefficienza e la confusione e temono che una vera semplificazione potrebbe ridurre il loro ruolo e i vantaggi che riescono a conseguire. Se si prova a chiedere a qualcuno di loro come ci si debba comportare in una determinata situazione, anche se presiedono enti di garanzia che dovrebbero istituzionalmente fornire risposte, ecco che iniziano subito i distinguo e le risposte diventano spesso più complicate del quesito stesso.
La risposta di un ente poi quasi mai coincide con quella di un altro, titolato per ragioni diverse a esprimersi sulla stessa questione. Basti pensare che nella stragrande maggioranza dei processi, soprattutto quelli più importanti e famosi, il giudizio di primo grado viene disatteso in secondo grado. Questo serve ai giudici per essere al centro dell’attenzione mediatica, per sottolineare il loro ruolo e la rilevanza delle loro decisioni, per aumentare le consulenze. Poco importa se questo scarica costi molto elevati sulla collettività. Questi esperti in complicazioni di affari semplici sanno che più è la questione si fa complessa, più aumentano le opportunità di guadagno e di inamovibilità, perché nessuno potrà mai fare un cambiamento perché si troverà sempre il modo per bloccare tutto.
Fino a quando non si interverrà su questo nodo, la politica sarà del tutto impotente, in balia dei vari burocrati che continueranno a pilotare i vari casi a seconda dei loro interessi. Non basta certo fare le leggi. Poi occorrono i decreti attuativi, vi sono continue rettifiche in corso di approvazione e poi vale la regola che le norme si applicano ai nemici mentre si interpretano per gli amici. La stessa obbligatorietà della legge penale fornisce la scusa per intervenire quando si ritiene opportuno pur essendo molto numerosi i casi in cui non si interviene per nulla.
I costi della politica, della disoccupazione, della perdita di competitività hanno la loro radice in questo nuovo fariseismo. Per contrastarlo occorre avere ben chiaro che non sono le regole che possono salvarci. Senza un soggetto che si faccia carico della situazione, che a partire da un giudizio chiaro si assuma la responsabilità di dire cosa è bene e cosa è male, cosa intende fare e perché non si potrà mai uscire da questo pantano. Duemila anni fa di fronte ai 613 precetti della Torah, Cristo disse che vi erano solo due comandamenti, introducendo un criterio chiaro per capire chi aveva davvero a cuore il bene proprio e quello dei propri simili.
In Italia abbiamo le peculiarità per una ripartenza e per mettere a frutto i tanti talenti e le ricchezze che una storia millenaria ci ha consegnato. Occorre che non ci vergogniamo delle nostre peculiarità e che sappiamo ripartire dal concetto di persona e dalla consapevolezza che tutto deve essere al servizio della persona e non viceversa. Lo Stato, la politica, l’economia, la scuola, la sanità, la ricerca, hanno senso se non sono autoreferenziali ma al servizio della persona e dei suoi bisogni.
I moderni farisei hanno troppo spazio nella vita pubblica, nei media e sono come una metastasi purtroppo largamente diffusa. Sono attentissimi a tutelare e proteggere i loro privilegi, pronti a coalizzarsi contro chiunque proponga cambiamenti che potrebbero, anche marginalmente, danneggiarli.
Spezzare questa sudditanza e riappropriarci di un giudizio su come si sia giunti a questo punto e perché può essere il primo passo per rompere la gabbia nella quale siamo intrappolati.