I recenti problemi con la giustizia del finanziere e imprenditore Salvatore Ligresti si sono aggiunti a quelli che da tempo affliggono ormai alcuni dei “patrioti” dell’operazione Alitalia-Cai, fatto che ha provocato la creazione da parte di certi organi di stampa di una specie di “maledizione” in perfetto stile Tutankhamon o Montezuma che dir si voglia. L’operazione che ha portato alla quanto mai mancata “salvezza” dell’ex compagnia di bandiera fa emergere la domanda se l’imprenditoria italiana esista ancora. Ovviamente crisi generale a parte.
L’impressione è che a certi livelli, e con le debite eccezioni, si sia instaurato, con la creazione della “Seconda Repubblica” succedutasi al terremoto di “Mani Pulite” (sarà un caso, ma pure chi ne fu l’artefice, l’ex magistrato Antonio Di Pietro, ne è coinvolto sebbene in altri livelli), un sistema che si potrebbe definire coercitivo, che funziona come una piramide – i cui tre lati sono composti dal potere politico, una certa imprenditoria, e parte del sindacalismo – al riparo della quale ci si trova a vivere una situazione diametralmente opposta a quella del Paese, quasi si trattasse di un altro Stato.
In questa seconda entità vige la regola della mancanza di codici, cosa che trasforma l’evasore fiscale da colpevole in vittima del sistema oppure esenta l’imprenditore dai suoi rischi tirandoli tutti sul groppone di uno Stato che, attraverso il cassonetto della Cassa integrazione e di altri salvagente legali, si trasforma in contenitore di eventuali perdite dovute a scelte economiche sbagliate a priori in cui quel naturale rischio d’impresa che ha costruito la classe dirigente dell’Italia del dopoguerra non esiste o è minimizzato.
Guardiamo anche il caso Fiat: tutti ricorderanno il famoso spot del progetto “Fabbrica Italia” lanciato anni fa su tutti i media nazionali in cui un padre, cullando il proprio neonato tra le braccia, gli faceva presagire quanto i sacrifici di oggi (decretati da referendum che ne sancivano l’accoglimento tra pianti e scene di disperazione di operai e impiegati) si potessero trasformare in un investimento di cui avrebbe goduto. Intanto, però, tutti i miliardi che Fiat aveva promesso non sono mai arrivati, dimostrando che ormai etica e morale non appartengono più a un marchio (ma sarebbe meglio dire a un sistema) che proprio dalla politica ha ricevuto nell’arco della sua esistenza aiuti formidabili, mai o quasi mai ricambiati. Tantomeno fa sorridere un Governo come quello Monti che altro non ha saputo fare se non accogliere il fatto senza scomporsi, né tentare di far sentire la propria voce: ancora una volta la piramide ha funzionato.
Eppure, più in là dell’operazione americana, dove Fiat si è comportata ovviamente diversamente, stupisce il fatto che si continua a non sfoderare modelli nuovi, al contrario degli altri grandi marchi automobilistici per i quali, ad esempio, l’auto ibrida o elettrica non è più una novità. Ma c’è di grave anche il fatto che diverse case automobilistiche straniere si siano offerte di rilevare stabilimenti Fiat destinati alla chiusura promettendo addirittura nuove assunzioni e contando sul know-how dei dipendenti come elemento anche per una migliore situazione salariale, ricevendo un niet da parte dell’azienda torinese e un silenzio tombale da parte della politica.
D’altronde la lungimiranza del gruppo torinese è stata spesso salvata da personaggi geniali come Gianni Agnelli (si guardi il caso del “parto” della 127, modello che costituì un successo incredibile solo perché il “Gianni” nazionale si prese la responsabilità di produrlo dopo un incontro con il creatore dell’auto, Pio Manzù, stupito dall’iniziale niet della dirigenza Fiat – purtroppo nel viaggio di ritorno verso Milano Manzù ebbe un incidente e perse la vita uno dei più stimati designer italiani). Ma come non citare un altro manager famoso, Vittorio Valletta, che all’atto di rilevare la Olivetti decise di sbarazzarsi del settore computers, perché secondo lui l’informatica non aveva futuro….in barba all’intuizione di un altro genio, l’imprenditore Adriano Olivetti.
Ecco, crediamo che proprio quest’ultimo personaggio della dinastia d’Ivrea racchiuda una rivoluzione ancora possibile, sempre che si riesca una buona volta a instaurare un sistema Paese che sostituisca l’attuale basato su di una concezione lobbistica deleteria per la nazione. Olivetti non solo fu un personaggio di un’immensa cultura, ma anche un vero industriale che seppe, in un dopoguerra che consegnava un Paese distrutto (quindi una situazione ben peggiore della crisi attuale), non solo rischiare di suo per far rinascere l’azienda paterna (nella quale aveva iniziato a lavorare con mansioni umili), ma sopratutto credere in ciò che attualmente nella nostra concezione industriale appare quasi una bestemmia (che però è pure alla base dello sviluppo di nazioni vere come la Germania): considerare il lavoratore e la sua crescita culturale come un cardine importantissimo per lo sviluppo dell’impresa, mettendolo al centro di essa e favorendolo in tutti i modi possibili, pure con iniziative che oggi possono apparire assurde come quella dell’ora di consultazione di giornali e libri all’interno dell’orario di lavoro, che scandalizzò una missione russa in visita agli stabilimenti di Ivrea.
Ma questo processo culturale permise non solo alla Olivetti di produrre articoli sempre più di successo, ma pure di essere la creatrice del primo pc apparso al mondo, il famoso calcolatore P 101, che fece la sua apparizione all’esposizione internazionale di New York nel 1965. Progettata da Pier Giorgio Perotto insieme con Giovanni De Sandre e Gastone Garziera, la P101, con la sua innovativa concezione e il design avveniristico per l’epoca, può essere considerato il primo personal computer, come ripetiamo, che portò gli americani a iniziare manovre molto poco etiche tramite il loro entourage politico in commistione con quello italiano per sabotare il prodotto, costringendo l’allora Amministratore delegato di IBM a intraprendere un rapido viaggio in Italia.
Questo, come tanti altri progetti dello storico marchio d’Ivrea, è il frutto proprio della concezione umanistica del mondo del lavoro di Adriano, ben lontana dall’attuale “materiale umano” ribadito dall’ex Ad di Cai Rocco Sabelli in una famosa riunione con le organizzazioni sindacali all’Hotel Bernini di Roma il 7 dicembre del 2008. E che poi ha fatto proseliti a quanto pare, visto che il “modello Alitalia” si è rapidamente diffuso al punto che oggi l’imprenditore sceglie le organizzazioni sindacali con cui rapportarsi (ed ecco così spiegato il modello piramidale precedentemente descritto).
Intanto lo Stato resta “contenitore” di maestranze spesso detentrici di esperienza invidiabile che potrebbero produrre profitti per le aziende, sacrificate e sostituite da lavoratori ex novo non forniti di cultura specifica e mandati al fronte della relazione con la clientela con risultati davvero poco onorevoli. “Poi a noi l’azienda viene a chiedere di intervistare i clienti che appartengono al target positivo per far passare sondaggi falsandone i dati”, mi ha rivelato un importante manager di un’impresa telefonica.
Anche la Chiesa da tempo ribadisce che bisogna tornare a mettere l’uomo al centro della società, l’uomo come valore, come risorsa con le indubbie capacità che dovrebbero derivargli dalla cultura generale o specifica della sua mansione lavorativa. Invece, ci troviamo di fronte a una società che invita le giovani generazioni a non pensarci, a distrarsi con le virtualità tecnologiche del mondo d’oggi, a praticare un facile arrivismo e, soprattutto, a evitare di sacrificarsi, come hanno fatto i nostri nonni, i nostri padri che hanno superato guerre o situazioni al limite della fame, ma hanno sempre lottato per quel “mondo migliore” che spesso sono riusciti a costruire e che ci hanno consegnato.
Solo riprendendoci dei valori che ormai stiamo abbandonando riusciremo a essere un Paese vero, a produrre e di conseguenza a godere di benessere aumentando la qualità della nostra vita. Ma il cambio deve essere radicale e fatto da tutti nel bene comune, sperando che l’esempio e la lezione di Adriano Olivetti diventino il cardine di una ripresa reale, non la scusa per una fiction che, a quanto ne so, dovrebbe iniziare a essere trasmessa da settembre. Le icone ci servono quando riusciamo a mettere in pratica il loro pensiero, non quando le trasformiamo in sterili oggetti di “cult”.