La settimana scorsa binocoli e cannocchiali puntati sulla Corte di Cassazione hanno fatto sì che una serie di notizie sullo stato di salute del sistema bancario e sui suoi effetti su imprese e famiglie siano finite nei dorsi interni dei quotidiani specializzati in economia e finanza e tra le brevi di quelli generalisti. È probabile che anche questa settimana, con il rischio di crisi di governo, il tema desti poca attenzione. È urgente, quindi, far suonare la sveglia. In primo luogo, uno studio di Fitch (dai toni tali da preannunciare un declassamento) dice chiaro e tondo che la banche italiane appaiono oggi tra quelle dell’eurozona maggiormente penalizzate dalla crisi in corso dal 2008. Sfata, quindi, l’impressione secondo cui i nostri istituti, magari molto casalinghi e anche troppo prudenti, non sarebbero finiti nei gorghi dello tsunami finanziario.
A ragione del rapido aumento della proporzione di crediti deteriorati (anche e soprattutto a causa del cattivo andamento dell’economia reale), sta crescendo (giorno dopo giorno) la loro debolezza; ciò frena la loro capacità di fornire quel credito alle imprese che è indispensabile per la ripresa dell’economia. Soprattutto, gli istituti di medie dimensioni necessitano urgentemente di nuovi aumenti di capitale (merce, però, molto scarsa).
In secondo luogo, un’analisi empirica dalla Banca mondiale (da un paio di giorni on line sul sito dell’istituto di Washington nel Research Paper No.6528) mostra, sulla base di dati del periodo 2008-2011, come il credit crunch “morda” sui redditi e sui consumi delle famiglie: la maggiore cinghia di trasmissione è la perdita di posti di lavoro (dovuta alle difficoltà delle imprese). Le famiglie nella fascia intermedia dei redditi (ossia la media e piccola borghesia) hanno un tasso di rischio doppio delle altre di cadere a livelli molto più bassi dei redditi e dei consumi. In breve, a ragione del credit crunch, i poveri restano poveri e i ricchi rimangono ricchi, ma quello che un tempo veniva chiamato il “ceto medio” soffre sino a scendere nella prossimità della linea di povertà. O anche più sotto.
La Banca mondiale (l’analisi non riguarda soltanto l’eurozona) afferma che una maggiore flessibilità della politica monetaria potrebbe essere l’antidoto, ma nell’area dell’euro i margini sono molto modesti, come mostrato il primo agosto dagli esiti della riunione dell’organo di governo della Banca centrale europea (Bce), che mantiene tassi d’interesse molto bassi, ma non ha riattivato misure “non convenzionali” di politica monetaria – e non ha iniziato quelle annunciate nel giugno 2012.
D’altronde, uno studio quantitativo del servizio analisi economica della Federal Reserve americana (Feds Working Paper No. 2013-34, disponibile agli abbonati) ha analizzato le misure Bce e concluso che hanno ridotto la volatilità, e in tal modo aumentato la “capacità potenziale di fare prestiti”, ma non hanno inciso in misura significativa sul credito effettivamente erogato alle imprese. A conclusioni analoghe giungono Roberto De Santis del servizio studi Bce e Paolo Surico della London Business School in un saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista scientificaEconomic Policy. Ancora più nero il quadro tracciato il 3 agosto nell’editoriale di Milano Finanza di aperta critica alla Banca d’Italia: perché il governatore e tutto il direttorio non si impegnano in un dialogo rilassato e non quasi da inquisizione con il management delle banche?
Si potrebbero aggiungere altre analisi, quale quella di R&S di Mediobanca, e altri dati quali quelli sulle sofferenze di Unicredit che nel 2012 ha avuto perdite del 36,9% sui crediti “dubbi”. Se ne trae non solamente un quadro deprimente, ma anche delusione a proposito delle misure Bce e dei passi effettuati da Banche centrali nazionali.
Se, però, si prende il microscopio si scoprono segnali positivi (di cui poco ci si accorge nel dibattito italiano). In questi ultimi mesi, è fiorita una letteratura interessante sul ruolo del sistema bancario collaterale (spesso chiamato in gergo “shadow banking”) nell’aiutare imprese in difficoltà. Si tratta spesso di rami di banche d’investimento o di fondi non soggetti alla regolazione bancaria; le loro attività comportano un maggior grado di rischio di quello degli istituti ordinari di credito, ma sovente il loro management sa scegliere con occhio sapiente dove investire e chi aiutare. In Italia, particolarmente pregevole il working paper n. 234 di Emilio Colombo, Luisanna Onnis e Patrizio Tirelli della Università di Milano Bicocca. Il lavoro analizza la risposta dell’“economa sommersa”, non solo dello “shadow banking”, alla crisi bancaria applicando a una base statistica empirica significativa un modello dinamico di equilibrio economico generale. Lo studio conclude che il 60% della contrazione dei settori ufficiali della produzione (e dell’occupazione) vengono “assorbiti” dal sommerso. Da considerare , quindi, una “mano santa” da elogiare, non da castigare.