Ultima per crescita in Europa, lontana dai migliori per competitività (al 42° posto secondo il World Economic Forum), l’Italia perde anche la partita su riconoscimento e tutela del diritto di proprietà. Il nostro Paese non solo viene dopo tutte le nazioni del G7 e quelle avanzate, ma è superato perfino dal Ruanda, collocandosi al 47° posto secondo l’International Property Rights Index 2013, l’Indice internazionale sui diritti di proprietà (IPRI), presentato a Washington pochi giorni or sono e realizzato dalla Property Rights Alliance (Washington DC), gruppo affiliato all’Americans for Tax Reform, l’influente gruppo di pressione “anti-tasse” fondato e guidato da Grover Norquist, e di cui fa parte il think tank italiano Competere.eu.



L’Italia registra un punteggio di 6.1 (la scala va da 0 a 10). Il podio è per i paesi scandinavi: in vetta c’è la Finlandia a 8.6; Svezia e Norvegia figurano tra i primi cinque. Il gruppetto dei primi dieci include inoltre Olanda, Svizzera, Lussemburgo, Singapore, Danimarca e Canada. La Gran Bretagna è al 12° posto (7.8), la Germania al 14° (7.7), gli Stati Uniti al 17° (7.6). La Francia segue a una certa distanza, ventesima (7.3), prima della Spagna (34° posto con 6.5). In coda c’è lo Yemen (3.1), preceduto da Venezuela e Burundi.



L’IPRI non solo indica come viene tutelata la proprietà in 131 paesi, rappresentanti più del 98% del Prodotto interno lordo (Pil) globale e il 93% della popolazione, ma dimostra anche che esiste una correlazione tra il grado di tutela della proprietà e la performance di un sistema economico.“I diritti di proprietà – spiega Lorenzo Montanari, direttore esecutivo di Property Rights Alliance – sono strettamente legati alla libertà economica e al livello di sviluppo di un Paese. E per l’Italia, che vede interi settori come l’agroalimentare, il design e la moda sotto attacco dalla contraffazione internazionale, questo è un altro duro colpo al sistema di piccole e medie imprese e al mondo della ricerca”. 



L’edizione di quest’anno, redatta dall’economista Francesco De Lorenzo, attualmente presso la Copenaghen Business School, si compone di tre indicatori. Il primo riguarda l’ambiente politico e giuridico: stabilità politica, corruzione, indipendenza della magistratura, stato di diritto. Qui l’Italia è al 51° posto con 5.6. Tra gli altri Paesi del G7, la Germania è quindicesima (8.0), la Francia al 22° posto (7.3) e gli Usa al 23° (7.2). Il secondo indicatore misura lo stato della regolamentazione dei diritti di proprietà fisica, e vede l’Italia al 64° posto con un punteggio di 6.1. La Gran Bretagna è ventesima, gli Usa al 22° posto, la Germania al 25° e la Francia al 38°. Infine, il terzo indicatore sulla proprietà intellettuale vede l’Italia al 31° posto con 6.6, mentre Usa e Gran Bretagna sono secondi a pari merito (8.3), la Germania è decima (8.1) e la Francia al 15° posto (7.9).

“Inoltre – ricorda sempre Montanari – nella presente edizione l’Indice presenta anche quattro case studies sul sistema dei diritti di proprietà in paesi come il Venezuela, la Cina, la Tailandia e la Tunisia. Per esempio, il caso della Tunisia, redatto dal team di ricerca guidato dall’economista peruviano Hernando de Soto, mette in evidenza come la mancanza strutturale di un moderno sistema di diritti di proprietà sia da annoverarsi tra le cause principali dello scoppio della Primavera araba”.

Per dimostrare che i paesi con un regime di diritti di proprietà più efficace crescono più in fretta e sono più competitivi, l’IPRI usa tre fondamentali indicatori economici: il reddito pro capite, il Pil e gli investimenti diretti esteri ricevuti. In tutti e tre i casi la correlazione è positiva. Per quanto riguarda l’Italia, è chiaro che l’area più critica è quella relativa all’ambiente politico e giuridico e quanto l’Italia debba crescere molto per creare un ambiente normativo favorevole alla riuscita e all’attrazione degli investimenti esteri, basato su più trasparenza delle norme e più certezza del diritto. Il caso Fiat è piuttosto emblematico; solo nell’ultimo anno, si sono susseguite due riforme del mercato del lavoro: una targata Monti-Fornero e una targata Letta-Giovannini. Non si sono ancora completati i decreti attuativi della prima e se ne vara una seconda. Da anni si discute sulla necessità di semplificazione del nostro codice del lavoro.

Che dire? Che se l’Italia è tra i paesi più industrializzati del mondo tanto che ha esportato eccellenze e ha visto premiare il know how del suo manifatturiero come il migliore, ciò significa che la nostra economia ha capacità e risorse, e che quel salto di qualità oggi più che mai auspicato è molto impedito dalla mancanza di una vision di sviluppo, dalla cattiva amministrazione, dalla burocrazia pesante e dalle conflittualità che connotano il nostro Paese in materia di economia e di lavoro. Come rilevato dalla Property Rights Alliance, nel Bel Paese continua del resto a prevalere una miopia che premia interessi particolari e logiche familistiche a scapito della libera iniziativa e del bene comune.

 

In collaborazione con www.think-in.it