Basta con le lacrime da coccodrillo. A meravigliare davvero è tutta questa meraviglia. Non era già scritto fin dal 2007? Non si sapeva da allora che Telecom Italia sarebbe finita a Telefonica? Chi avrebbe dovuto prenderne il controllo, le Generali che si occupano di polizze? L’equivoco è stato sciolto insieme a Telco, la scatola che non conteneva nessuna magia. Del resto, è l’epilogo triste della matrigna (altro che madre) di tutte le privatizzazioni. L’economista Alessandro Penati sulla Repubblica ha raccontato i magheggi finanziari che hanno indebolito Telecom schiacciandola sotto una montagna di debiti. Ha dimenticato il ruolo della politica o meglio del collateralismo tra banca, industria e politica, male oscuro del capitalismo italiano.
Romano Prodi privatizza nel 1997 chiamando in campo Umberto Agnelli, con il quale ha una lunga consuetudine, anche per tenere lontana la Mediobanca di Enrico Cuccia, suo eterno avversario. Massimo D’Alema sponsorizza Roberto Colaninno nel 1999. Arriva Silvio Berlusconi ed ecco un altro cambio di proprietà con Marco Tronchetti Provera che abbandona nel 2007 perché osteggiato, come ha lamentato anche pochi giorni fa, dalla politica, cioè dal ritorno al governo di Prodi il quale favorisce la soluzione “di sistema”, cioè il pasticcio Telco. Adesso si levano di nuovo voci da destra e da sinistra per chiedere che rientri in campo la politica. Ancora? Ma se non è mai uscita dall’economia e tanto meno dalle telecomunicazioni (in primis la tv). Non è inutile dimenticare che Omnitel, la società creata da Carlo De Benedetti sulle ceneri di Olivetti, ottenne la licenza per i telefonini grazie a Carlo Azeglio Ciampi che firmò poco prima di lasciare palazzo Chigi nel 1994. Tre anni dopo passò per metà ai tedeschi di Mannesmann, nel 1999 tutta a Vodafone.
Dunque, perché stupirsi? Così vanno le cose. Così, forse anche peggio sono andate in Alitalia. Mentre non si sa come andranno a finire alla Fiat, costretta dalla resistenza dei sindacati Chrysler a un’offerta pubblica costosa che può rimettere in discussione anche la posizione degli Agnelli (lo hanno detto loro stessi, un po’ come minaccia, un po’ per mettere le mani avanti). In sostanza, stiamo assistendo alle battute finali di un processo che nel corso dell’ultimo quarto di secolo ha visto mutare il volto del capitalismo italiano. I grandi gruppi si sono arresi, hanno dato forfait, come dimostrano le analisi di Fulvio Coltorti, direttore emerito dell’area studi di Mediobanca. Quasi tutti. Restano in pochi e anch’essi sotto tiro: Enel, gravata di debito per l’acquisizione della spagnola Endesa; Eni, ancora forte ed efficiente, ma nella morsa dei colossi americani o di quelli dei paesi in via di sviluppo; Finmeccanica, aiutata dal governo attraverso la Cassa depositi e prestiti che prende l’Ansaldo. Poi Fiat, le Assicurazioni Generali, Unicredit. Nessun altro tra i grandi. A lunga distanza arrivano le multinazionali tascabili. Luxottica e Pirelli, che pure non sono poi piccole per lo standard italiano, hanno una taglia non comparabile con le imprese davvero globali.
Che c’è di male, si chiedono in molti. “I paesi non hanno bisogno di compagnie gigantesche per essere di successo”, scrive l’Economist e cita il Canada “colossus free”. La stessa Germania, che pure possiede mastodonti come Volkswagen, Daimler, Deutsche Bank, deve la sua forza al Mittelstand, le imprese medio-grandi simili a quelle italiane con le quali allo stesso tempo competono e cooperano. Per contro, paesi che si sono basati sul gigantismo industriale come il Giappone ristagnano e vedono sgonfiarsi i loro Godzilla. Lo stesso accade a certi mostri cinesi gonfiati come palloni di carta per ragioni politiche. PetroChina venne quotata a Shangai, divenne la numero uno al mondo con un valore di mille miliardi di dollari. Oggi ne vale 233. Qualcosa del genere è accaduto a China Mobile, la compagnia telefonica. Dunque, attenti al culto del grande capitale. Quello che appare più modesto e diffuso, spesso è il più solido. Bene. E tuttavia la dimensione conta, eccome.
Nel mercato globale, per sedere al tavolo di chi decide, bisogna avere alle spalle ampie e solide “armate”. Se la competizione economica ha valore anche politico (e lo ha), allora occorre attrezzarsi. Lo dimostra la stessa vicenda di Telecom Italia. O quella dell’Alitalia. Al di là dei pasticci o dell’inadeguatezza degli eterni capitalisti senza capitali, di finanzieri arraffatori e imprenditori incapaci, guardiamo ai processi di lungo periodo. Nel trasporto aereo fin dagli anni ‘90 è avvenuto un processo di selezione dal quale l’Alitalia è rimasta fuori. Poteva esserci una fusione quasi alla pari con Air France nel 2001, ma non è riuscita anche per molteplici ostacoli politici. Adesso i francesi si prendono la compagnia italiana e la vogliono ripulita dai debiti. Nelle telecomunicazioni è in corso una selezione darwiniana. E l’Europa è il ventre molle: ci sono troppe imprese, la maggior parte delle quali non sta in piedi. Esattamente come Telecom Italia.
Così stanno le cose. Ma anziché piangerci addosso sarebbe ora di cominciare a ragionare su cosa deve essere questo Paese. Si sente dire (è un refrain di Matteo Renzi) che “il turismo è il nostro petrolio”. Ma vogliamo diventare tutti camerieri o ciceroni (e non sappiamo nemmeno le lingue)? Siamo sicuri che possiamo fare a meno dell’industria pesante come l’acciaio? La vicenda Riva ha riportato all’attenzione quel che eravamo anche in questo campo. Pur senza dimenticare le cattedrali nel deserto, gli errori strategici dell’industria pubblica e i debiti accumulati dall’Iri. Una parte dell’energia intellettuale profusa in questi mesi a discutere sull’Imu e sull’Iva, può essere dedicata a capire come e dove si può creare lavoro produttivo, non assistito dallo Stato?
Fuor di polemica, esistono le basi per ricominciare. Sono in quel quarto capitalismo dinamico, nei distretti, in un’industria che esporta anche più di quella tedesca con la quale è assolutamente competitiva nonostante le imposte e il costo del lavoro superiori. Sono imprese che hanno fatto grandi sforzi per spostarsi sul livello più alto nella catena del valore. Ma è un tessuto che va rafforzato e le aziende debbono crescere, anche a rischio di cambiare assetto proprietario.
L’industria-boutique può essere il modello italiano originale per il prossimo decennio, se diventa un vero sistema. La storia del nostro sviluppo industriale ha una sua originalità che non va sottovalutata. Ci sono fior di indagini e la Banca d’Italia batte da almeno vent’anni su questo tasto. La politica, invece, ha guardato ad altro, cioè a influenzare i manager e gli azionisti nelle imprese ad alto contenuto elettorale. E continua così, come dimostra il caso dell’Ansaldo. È arrivato il momento di trovare una strategia per un’Italia che non può sfamare sessanta milioni di persone con le pizzette e i mandolini.