Nel luglio del 2011 la Borsa italiana ha dato l’addio a quota 20.000. Non era, per carità una vetta storica. Anzi. Solo cinque anni prima Piazza Affari poteva contare su valori sensibilmente superiori, più che doppi visto che il valore massimo dell’indice Ftse/Mib è stato di 44.000 punti abbondanti. Ma quella ritirata, coincisa con l’avvio della febbre dello spread, fu il segnale che i Big della finanza internazionale avevano levato il pollice verso nei confronti del Bel Paese. Poche settimane prima, Deutsche Bank aveva in pratica smantellato le posizioni sui titoli di stato italiani innescando un fenomeno che presto avrebbe contagiato i grandi fondi giapponesi e del Nord Europa. Le banche italiane, nel giro di pochi mesi si trovarono drammaticamente a corto di liquidità. Solo l’intervento della Bce, grazie all’erogazione dei fondi Ltro, evitò conseguenze più drammatiche già date per probabili dalla speculazione internazionale.
In questi giorni Piazza Affari ha recuperato quota 20.000. Non a caso la circostanza è stata preceduta dal calo dello spread nei confronti del Bund tedesco, più che dimezzato dai giorni cupi del 2011. La finanza internazionale, intanto, ha riscoperto le opportunità offerte dall’Europa “periferica”, la più tartassata in questi anni bui. Madrid presta il denaro a tre anni all’1,59%, a tassi quasi “svizzeri”. Dublino, rientrata sui mercati dopo un embargo durato tre anni, ha appena collocato i suoi titoli decennali a pochi centesimi in più dei T-bond americani. E la Borsa più brillante del pianeta, in questo pazzo gennaio, finora è stata Atene.
All’improvviso, insomma, il mondo ha preso ad andare alla rovescia, come spesso capita nella finanza, abituata a sorprendere e cogliere in contropiede i trend dell’economia reale. Ma quanto durerà? O ancora: si tratta di una fiammata speculativa o l’anticipazione di una boccata d’ossigeno per l’economia reale? E quanto può pesare, infine, la crisi politica?
Per tentare una risposta proviamo a tracciare un identikit dei compratori che hanno promosso l’Europa a possibile protagonista, al fianco degli Usa, della ripresa dell’economia. Nel giro di poche settimane miliardi di dollari si sono rovesciati sui mercati europei favorendo un aumento della capitalizzazione di 800 miliardi circa. A muovere i listini sono i grandi investitori istituzionali, che si muovono con la logica dei computer. E la forza di un bulldozer se si considera che BlackRock, il gigante del risparmio gestito, amministra 4.324 miliardi di dollari. E che nel corso dell’ultimo trimestre la sola sua controllata iShares, specializzata nel settore degli Etf, ha raccolto 19,1 miliardi di dollari, per lo più reinvestiti nei listini azionari.
Non è azzardato sostenere che il mercato, al giorno d’oggi, dipende da BlackRock, così come nel 2006/07 era in mano alle scommesse sui derivati di Goldman Sachs e soci o, negli anni della grande bolla di Internet, lo era degli hedge fund impegnati a far lievitare le quotazioni del mondo Internet. Il che sta a indicare che, in un certo senso, siamo tutti nelle mani di Aladino, ovvero della piattaforma che gestisce i rischi finanziari di Blackrock e della sterminata fila dei suoi clienti: qualcosa come 170 fondi istituzionali del pianeta, compresi i fondi sovrani del Medio Oriente.
Intendiamoci Aladino, nome di battaglia di un apparato estremamente sofisticato, forte di 6 mila super computer ben mimetizzato a East Wenatchee sulle colline dello Stato di Washington che fronteggiano il Pacifico, non è un Grande Fratello che muove a suo piacimento i soldi dei clienti, ma la “mente” che, dopo aver ruminato migliaia di dati, informa i gestori sul livello di rischio insito in una certa strategia di portafoglio. Insomma, dietro all’affondo dei capitali internazionali verso l’Europa, Piazza Affari compresa, non c’è un giro di giostra casuale, bensì una valutazione di lungo periodo supportata da non pochi fatti.
Per limitarci a Piazza Affari, non è difficile prevedere che, dopo la lunga fase recessiva, i consumi rimbalzeranno a tutto vantaggio dei titoli ciclici. E le banche, che nel corso degli ultimi 18 mesi hanno accumulato capitale in eccesso per far fronte ai crediti incagliati e alle sofferenze, presto potranno liberare risorse per gli investimenti. Il 2014, salvo incidenti di percorso (un aumento repentino dei tassi di mercato, ad esempio), si presenta come un anno all’insegna del rialzo, a tutto vantaggio delle imprese che sfrutteranno l’occasione per raccogliere capitali. Come minimo, quindi, è ancora presto per staccare la spina sull’azionario nonostante il rialzo di questi mesi.
In Borsa, per carità, non è saggio nutrire certezze assolute, ma ci sono buone ragioni per pensare che Aladino non ci tradirà. Ovvero:
A) la ripresa registrata a fine anno 2013 può proseguire anche nel 2014;
B) la crescita Usa porterà a un rafforzamento del dollaro sull’euro aiutando le esportazioni del nostro Paese;
C) il quadro politico rimane fragile, ma ai mercati piace l’arrivo di nuovi competitor, a partire dall’ascesa di Matteo Renzi;
D) la Bce è pronta a nuove misure espansive per contrastare la deflazione;
E) a livello di multipli il nostro indice è interessante, il P/E medio è pari a 13,1 volte a fronte di un aumento medio previsto degli utili del 30% per il 2014.
Che può fare la politica per accelerare il processo? Può fare molto, come dimostra l’accelerazione della Spagna, assai più lesta di noi a varare le riforme in materia di mercato del lavoro e taglio della spesa chieste dai mercati. Moltissimo si può ricavare da forti investimenti nella formazione, necessari per garantire alle aziende cervelli (e braccia) adeguati alle richieste del mercato. Ma non dimentichiamoci che le aziende italiane sopravvissute alla crisi hanno imparato a cavarsela da sole e sapranno far buon uso dei capitali in arrivo. Nessuno si illuda, invece, di poter resuscitare aziende zombie.