Nel 1998, quasi in contemporanea con lo sbarco di Gm in Fiat, Daimler sferrò l’attacco al mercato Usa acquistando Chrysler per 36 miliardi di dollari. Nel giro di dieci anni Sergio Marchionne è riuscito a convincere prima Gm a versare 2 miliardi di dollari nelle casse stremate della Fiat pur di liberarsi dall’obbligo di acquisire la casa torinese, poi ad acquisire il pieno controllo di Chrysler, nel frattempo ceduta dal gruppo tedesco al fondo Cerberus (7,4 miliardi di dollari per l’80%). Il tutto per un esborso complessivo di 4,35 miliardi di dollari, di cui solo 1,75 miliardi in arrivo dalle casse Fiat. Insomma, con un ragionamento disinvolto si può prender atto che i quattrini versati da General Motors al Lingotto nel 2005 equivalgono al cash che Marchionne ha utilizzato per rilevare Chrysler.



Anche così si può render merito alla grandezza del manager che, all’alba del 1° gennaio, ha ipotecato il titolo di uomo dell’anno per l’intero 2014. Inutile insistere su questo terreno. In questi giorni, anche dai pulpiti più impensabili, pioveranno gli elogi per il ceo di quella che è ormai la settima forza mondiale dell’auto. Ma adesso? Quali obiettivi si può porre il nuovo gruppo? E quale ruolo potrà avere l’Italia nella nuova geografia della galassia Fiat/Chrysler?



Diciamo, innanzitutto, che per la prima volta in dieci anni Sergio Marchionne non dovrà muoversi nell’emergenza. Finora i suoi miracoli si sono realizzati nuotando nei mari della crisi dell’auto Usa, sfruttando le necessità della Casa Bianca nel 2009, alle prese con una crisi dell’auto che sembrava senza rimedio. Ma c’è riuscito affrontando, senza affondare, le due peggiori crisi dell’auto europea del dopoguerra, senza sollecitare ma senza nemmeno ricevere aiuti dalla mano pubblica italiana o europea. Anche in questo caso l’unica arma a sua disposizione è stata l’assenza di alternative da parte della proprietà: come Barack Obama ha avuto ben chiaro nel 2009 che quel bizzarro italo-canadese che rifiuta la giacca era l’unica chance per non rottamare Chrysler (come volevano i suoi consiglieri, convinti che solo così ci sarebbe stato spazio per un rilancio di Gm), così John Philip Elkann e il resto del clan Agnelli hanno avuto ben chiaro che l’unica possibilità per non finire travolti dalla crisi dell’auto e dell’industria italiana passava per le ricette ruvide ed estreme di Marchionne, l’anti-italiano per eccellenza, che non ha esitato a far uscire la Fiat dalla Confindustria.



Oggi la sfida è altrettanto delicata anche se meno spettacolare, almeno all’apparenza. Si tratta, in effetti di trasformare la somma di tre aziende regionali radicalmente diverse e integrarle in una sola realtà globale. Oggi ben poco accomuna i giganti della strada della scuderia Chrysler, compreso il gioiello Jeep, con l’offerta Fiat sul mercato europeo. Il Brasile, poi, fa storia a sé, garantito com’è da dimensioni e investimenti che ne garantiranno la leadership nei prossimi anni. L’obiettivo di Marchionne è di trasformare questa federazione dalle mille possibilità in una grande corporation ove possano essere esaltati sia le qualità delle singole marche, sia la garanzia di una reputazione comune.

Per quanto riguarda l’Italia, questo significa esaltare il concetto di lusso insito nel made in Italy, così come viene apprezzato nel mondo. È questo il concetto che sarà alla base della progettazione delle nuove Alfa, sulla scia del successo che sta riscuotendo la nuova Maserati. In sostanza Marchionne, italiano almeno fino a oggi assai antipatico, come dimostra il fatto che ci siano più biografie sulla sua figura pubblicate in Usa che in Italia, traccia una strada per la ripresa del manufacturing italiano che sembrava fino a oggi riservata solo alla piccola industria. L’intuizione è che, se si ha come riferimento il mercato mondo, si giustificano investimenti in prodotti ad alto valore aggiunto in quantità accettabili. Meglio un’Alfa che si faccia apprezzare e vendere piuttosto che dieci utilitarie a basso prezzo (e zero utili) per far marciare impianti in perdita cronica e, del resto, sempre meno apprezzati dalle comunità locali.

Colpisce il fatto che a pensarci sia stato un italiano accusato di aver poco a che fare con la cultura italiana. Forse perché il suo stile aveva poco o nulla in comune con i rituali della vita pubblica italiana, votata alla mediazione e al compromesso, con grande rispetto per gli interessi particolari di ceti e categorie di riferimento, ma poco interessati all’interesse generale. Forse perché la sua insofferenza per le pressioni del mondo politico, sindacale e della magistratura è stato finora vissuto come la ricerca di un pretesto per lasciare l’Italia. Al contrario, mentre si moltiplicano i casi di aziende che fanno ritorno in Occidente dai paesi emergenti Marchionne ha saputo offrire il quadro di un’Italia diversa rispetto al pasticcio quotidiano offerto dalle forze politiche. Ed è una buona premessa per puntare, finalmente, a uscire dalla crisi. Con i fatti. Non con le tante parole al vento.