“Sarà l’anno del cambiamento”, ha detto ieri Enrico Letta incontrando i parlamentari europei italiani. “Saremo una buona guida dal luglio prossimo, ma serve stabilità e conti in ordine”, ha aggiunto, e con questo binomio si è presentato anche all’incontro con i vertici della Ue. Ha ragione, stabilità politica e conti in ordine sono due condizioni necessarie, ma non sono sufficienti. Barroso ha ricordato che “l’Italia è vulnerabile”, invitandola ad accelerare le riforme. Dunque, per gestire in modo proficuo il semestre di presidenza, c’è bisogno di un colpo d’ala.
Difficile definire a priori un programma, soprattutto prima di aver visto i risultati delle elezioni del prossimo maggio. Anche se non è poi così arduo capire dove tira il vento. In Francia Marine Le Pen e il suo Front National sono già il primo partito (stando ai sondaggi), in Italia si può star certi che tra grillini, gauchiste e destrinazionali gli antieuro faranno un’abboffata di voti. In Grecia c’è Alba dorata. In Spagna il rifiuto prende anche la via separatista, in Catalogna, in Andalusia, per non parlare dei Paesi baschi. In Gran Bretagna gli euroscettici si mescoleranno con le spinte separatiste e secessioniste (la Scozia è in lista d’attesa). In Germania Alternative, composta di anti-euro in doppiopetto, medita di rinunciare, perché l’idea di fare da apprendisti stregoni spaventa i suoi organizzatori, ma monta il risentimento popolare contro gli scialacquatori del sud salvati dai bravi risparmiatori tedeschi.
Quindi, c’è il rischio che sia davvero l’anno del cambiamento, ma in peggio, nel senso di un ritorno sempre più rapido verso la ri-nazionalizzazione dell’Unione. Enrico Letta, federalista fin da quando indossava i calzoni corti, teme un esito del genere; ragione ulteriore per giocarsi qualche jolly. Quale?
Cominciamo dai problemi italiani per capire come l’interesse nazionale si può coniugare con l’interesse dell’Unione. L’Italia ha due gigantesche palle al piede, il debito e la competitività. Sono loro che impediscono la crescita e alimentano una disoccupazione tanto elevata. Quindi, vanno aggredite combinando politica fiscale e politica monetaria. Quest’ultima non sta nelle nostre mani, ma ormai ci sfugge anche la manovra del bilancio pubblico, soprattutto perché abbiamo davanti la ghigliottina del Fiscal compact.
Le scelte della Banca centrale europea hanno avuto un impatto ambivalente sull’Italia: è stato senza dubbio di grande aiuto tutto ciò che dall’estate 2012 in poi ha stroncato l’attacco all’euro. Mario Draghi, con parole e atti concreti, ha giocato un ruolo decisivo nel ridurre lo spread. Tuttavia ciò non ha avuto l’effetto sperato sul debito. Colpa del governo che non ha tagliato abbastanza la spesa corrente, ma non solo; perché in ogni caso il disavanzo è rimasto sotto il 3% a differenza di altri paesi come la Spagna e la Francia che hanno ottenuto una robusta proroga.
La responsabilità di un debito in salita è anche (e in modo molto consistente) dell’inflazione troppo bassa, sotto l’1%, mentre l’obiettivo della Bce è di tenerla entro il 2%, cioè un punto di più. Noi abbiamo scritto ben in anticipo su queste pagine che il nuovo mostro del 2014 è la deflazione. Draghi giura che non accadrà e lo ha detto anche a Davos. Ma in ogni caso, se i prezzi continuano a scendere, il debito italiano in rapporto al prodotto lordo non si fermerà. Poiché dal prossimo anno il Fiscal compact ci obbliga a cominciare il ventennale cammino verso la mitica quota 60%, quanto ancora bisognerà tagliare e stringere la cinghia? Di grasso ce n’è, ma ci avviciniamo all’osso.
Tanto per capire il rapporto tra inflazione e debito, l’economista Domenico Lombardi ha calcolato che se i prezzi salissero del 4% l’anno (cioè l’obiettivo che secondo Olivier Blanchard e gli economisti del Fondo monetario internazionale sarebbe ottimale per sostenere una crescita stabile nel mondo intero), il rapporto debito/Pil calerebbe spontaneamente al 105% nel 2018. Impressionante, no? Quota 4% è fuori legge per la Bce, ma già il 2% sarebbe un sollievo. Dunque, l’Italia, naturalmente con un governo stabile e i conti in ordine, dovrebbe mettere sul tavolo la questione monetaria la quale, certo, spetta alla Bce, ma riguarda la tenuta dell’intera zona euro, quindi la commissione di Bruxelles, così come i governi nazionali.
Veniamo alla competitività. Standard & Poor’s minaccia un downgrading dell’Italia non perché non risana il bilancio, ma perché la sua bassa produttività deprime lo sviluppo dell’economia e riduce i redditi pro capite. Per tenerci in carreggiata avremmo bisogno di crescere di due punti e mezzo, uno in termini reali più uno e mezzo d’inflazione. Si può realizzare in tempi brevi con una svalutazione. Non è possibile svalutare la moneta, allora si deve passare attraverso il fisco e il costo del lavoro. In altre parole, bisogna ridurre le imposte che gravano su imprenditori e dipendenti; e in parallelo ricorrere a soluzioni contrattuali volte a contenere i salari aumentando le ore di lavoro, come in Germania e in Spagna.
Affinché diventi una strategia fattibile e non punitiva, è necessaria una maggiore elasticità nella politica fiscale nazionale. Non si tratta, dunque, solo di liberare gli investimenti pubblici dalla tagliola di questo artificioso 3%, ma anche di consentire uno sforamento temporaneo per favorire politiche dell’offerta che aumentino la produttività. È un’altra questione che Letta deve porre sul tavolo, anch’essa cruciale per l’Italia e per altri paesi, tra i quali la Francia.
Sui mitici parametri di Maastricht è divertente e istruttivo leggere quel che ha dichiarato a Le Parisienun certo Guy Abeille, economista e funzionario pubblico, il quale nel lontano 1981 (prima della caduta del Muro di Berlino, dunque preistoria) in un’ora inventò la regola del 3% basandosi non su sofisticati modelli econometrici, ma su un puro calcolo di opportunità: era grosso modo il disavanzo pubblico sul Pil che la Francia poteva sostenere e per questo motivo piacque subito al neo presidente francese, il socialista François Mitterrand. Così come piacque a Helmut Kohl il debito al 60%, una quota sostenibile per la Germania di allora non ancora unificata. Ormai la frittata è fatta, il trattato di Maastricht è costruito su questi due pilastri estemporanei, ma almeno facciamone dei punti di riferimento e non tabù intoccabili.
Del resto, la consapevolezza che bisogna uscire da una ortodossia miope e farisaica si fa strada anche in Germania. Hans-Werner Sinn, il presidente dell’Ifo, l’autorevole istituto bavarese che misura la congiuntura, ha proposto di organizzare una conferenza europea sul debito, per affrontare il problema non più aggirabile: disinnescare la bomba a orologeria rappresentata dallo stock dei debiti pubblici. Non si possono aspettare le calende greche perché questa montagna grava di riffa o di raffa sull’intero mercato finanziario europeo, sulle banche, sulle imprese attraverso la stretta creditizia e lo spiazzamento degli investimenti. Dopo anni si arriva a riconoscere che gli Stati Uniti hanno fatto bene a utilizzare strumenti straordinari per affrontare una crisi fuori dall’ordinario (il Tarp, i salvataggi, la ristrutturazione di GM e la vendita di Chrysler, ecc.). Meglio tardi che mai. L’Italia dovrebbe essere d’accordo e rilanciare.
Naturalmente circolano ricette diverse, addirittura opposte, anche in Germania. C’è l’idea di un Redemption Fund, un fondo per la restituzione del debito nel quale versare l’ammontare superiore al 60% del Pil, lasciando i singoli stati responsabili pro quota. C’è una proposta ben più dura (e pericolosa) che viene dalla Bundesbank: i paesi altamente indebitati, ma comunque ricchi, impongano una super patrimoniale. E l’Italia, secondo l’ufficio studi della Buba è patrimonialmente più ricca della Germania. Ci sono poi, altre varianti, con versioni più o meno “leggere” di titoli speciali (da non chiamare eurobond).
Il governo Letta ha una sua idea? Ha elaborato una posizione? C’è un piano B che eviti di congelare il bilancio pubblico per un quarto di secolo? Domande senza risposta. Sinn e gli economisti tedeschi hanno offerto un assist, sarebbe davvero grave se Letta mancasse la palla. La conferenza su come regolare i debiti sovrani, dunque, potrebbe essere un piatto forte del menù italiano a Bruxelles.