È da parecchi anni che l’Ufficio delle Entrate usa, nel suo sistema di accertamento fiscale, in fase di autodenuncia dei redditi di alcune fasce di contribuenti che svolgono un’attività economica (professionisti, commercianti, artigiani, ecc.), una specie di processo di “autocontrollo”, mediante una serie di procedure di analisi dette comunemente Studi di Settore. Attraverso la compilazione di queste appendici ai normali modelli Unici, gli studi di commercialisti che svolgono assistenza fiscale obbligatoriamente devono dimostrare come le poste di bilancio dell’attività dell’anno, soprattutto i ricavi, siano coerenti e veritiere rispetto a quanto denunciato al fine della determinazione delle imposte dirette e dell’Irap. Pertanto le cifre esposte devono trovare riscontro con degli indicatori, determinati a priori e personalizzati secondo il settore professionale, merceologico e di servizi di appartenenza, dall’Ufficio, che tengano conto della tipologia di attività, del cosiddetto volume d’affari, dell’impegno finanziario e dell’acquisizione di beni strumentali, dei costi fissi e variabili, delle scorte in magazzino, ecc. Alla fine di considerevoli calcoli, di applicazione di percentuali diverse e via dicendo, il risultato finale di questa sorta di “prova del nove” deve rientrare in verosimili parametri a cui poter assegnare una fascia reddituale sulla quale si ricalcolano le imposte.
Dopo un iniziale periodo di confusione, fasi di mancato chiarimento da parte del Fisco, errori sui moduli da compilare, tentativi da parte di alcune fasce di contribuenti di proteggere nel senso corporativo il proprio “orticello” (evasioni, richieste di detrazioni d’imposta, super-guadagni, ecc.), negli ultimi anni le cose si sono stabilizzate, nel senso che gli Studi di Settore sono venuti a far parte del normale “menage” fiscale. Ma purtroppo non si sono fatti i conti con gli effetti dell’attuale congiuntura economica, e già da tre-quattro anni si è visto che il procedimento al calcolo di questo modello di autodenuncia era inadeguato e che alcuni settori, rispetto ad altri, erano più penalizzati da questa crisi galoppante. Pertanto a fianco alla nuova legge di stabilità approvata a fine anno, il Ministero del Tesoro, mediante una commissione di esperti, ha individuato alcune (e ancora poche) importanti modifiche d’apportare alla normativa vigente, intervenendo su due indicatori di settore (applicabili già a decorrere dal periodo di imposta 2013) e precisamente: le territorialità con cui effettuare le differenziazioni “geografiche”; il maggior ricavo, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap.
Per quanto riguarda il primo parametro era impossibile non intervenire, crisi o non crisi. L’Italia è infatti un Paese diviso, soprattutto a livello economico, tra nord e sud, tra grosse metropoli e il loro hinterland, e tra zone semidepresse, aree industriali e agricole, ecc. Quindi è sempre stato difficile che canoni di locazione degli immobili, prezzi di case, negozi, ecc., redditi medi al fine di imposte locali e livelli di retribuzione fossero uguali per tutti gli imprenditori dislocati nel Paese. È arduo pensare che a una piccola azienda artigianale, ad esempio della provincia di Catanzaro, venga applicato un indicatore ai fini degli Studi di Settore sull’affitto di un capannone uguale a un mobiliere di Cantù o che un tassista di Milano guadagni quanto uno di Campobasso. Nel precedente regime di accertamento fiscale le differenze non esistevano o erano minime.
Nel caso poi del secondo provvedimento, la Commissione di esperti ha voluto diversificare le basi imponibili fra imposte dirette e indirette, in modo tale che, nel caso dell’Iva, si consideri il volume d’affari come imponibile (le fatture emesse) e nel caso di tutte le altre imposte, la differenza fra costi e ricavi; ad esempio, la liquidazione periodica dell’Iva (che è una posta di giro) si basa sul conguaglio della differenza delle fatture emesse con le fatture ricevute: di fatto non si valutano in fase del calcolo dell’imposta i costi di produzione deducibili (durata delle scorte, incidenza del costo del venduto e del costo della produzione, dove previsti); altresì il computo dell’Irpef, e delle imposte indirette, non può essere uguale all’Iva, in quanto non si considera il cosiddetto “maggior ricavo” (si pensi, per esempio, a un oggetto artigianale, a un servizio esclusivo o una griffe).
Concludendo, crediamo che tali variazioni non possano risolvere in maniera definitiva i problemi delle aziende, oberate da una galoppante stretta redditizia e da un’iniqua politica tributaria, anche perché non producendo non si vende e non vendendo non ci sono tasse derivanti dal reddito da pagare; ma questo metodo di accertamento, tenendo conto di quanto già detto, non è del tutto da buttare; probabilmente con un buon lavoro di pragmatismo si può dare inizio con una serie di provvedimenti mirati a un tentativo di migliorare i nostri sistemi di verifica fiscale, in grado di lottare contro la piaga dell’evasione, che tenga conto di più delle differenze fra categorie a riguardo volumi d’affari, genere economico e professione (un dentista svolge un attività molto diversa fiscalmente da un muratore).
Si è operato in questi anni nel tentativo di far pagare in maniera indiscriminata e coscientemente arzigogolata le tasse a tutti gli italiani in un sistema che ricorda quello Borbonico dell’800, con il risultato di appiattimento e omologazione verso il basso, dove il Fisco è sempre apparso, soprattutto all’imprenditore, il nemico numero uno da combattere senza esclusione di colpi. È ora di pensare a qualcosa di diverso, a un sistema più confacente allo scenario economico-sociale attuale, a una maniera di accertamento fiscale più moderna e più equa, che aiuti il nostro Paese nel tentativo di uscire finalmente da questa crisi che l’attanaglia.
(Andrea Lagravinese)