La fusione Fiat-Chrysler, ripropone un tema già sollevato su queste pagine, il 23 settembre scorso a proposito della siderurgia: in Italia, e in Europa, c’è o non c’è esigenza di una politica industriale? In effetti, nonostante dal 2007 a oggi il peso del manifatturiero sul valore aggiunto è passato dal 22% al 15%, il termine stesso “politica industriale” sembra essere diventato una locuzione da non utilizzare in un salotto dove ci sono signore. Basti pensare che, paradossalmente, l’ultimo documento di politica industriale, se ben ricordo, è stato presentato dal Governo al Parlamento quando il Presidente del Consiglio era il socialista Craxi e il Ministro dell’Industria (allora si chiamava così) il liberale Altissimo. C’è stato anche un tentativo quando il Ministero (diventato delle Attività produttive) era guidato dal liberale Marzano; non credo, però, che giunse mai alla stadio di indirizzo di Governo da dibattere in Parlamento.



In effetti, dalla riforma costituzionale del 2001, in Italia non c’è neanche un referente chiaro di politica industriale in quanto le competenze sono divise tra Stato e Regioni (nonché ovviamente le due Province autonome). Da anni, sulla politica industriale grava un pregiudizio, ben caratterizzato in un saggio sul governo dell’industria in Italia da Giuliano Amato, un socialista e un giurista, nel lontano 1976: quello secondo cui la mano pubblica, invece che indirizzare l’industria, sarebbe “impicciona” e “pasticciona”.



È un pregiudizio antico. Il 23 settembre, ricordavamo, sulla scorta del saggio di Elio Cadelo e Luciano Pellicani (Contro la Modernità: le radici della cultura anti-scientifica in Italia) come nell’Ottocento, quando la cultura scientifica si affermava in Europa e Nord America (avendo come corrispettivo il “positivismo”), in Italia si rispose trasformando (mi si consenta il termine) la teologia in “idealismo” e dando un forte primato agli studi classici. I “modernizzatori”, sotto il profilo intellettuale, e i promotori dell’industria manifatturiera (in un’Italia sostanzialmente agraria) vennero costretti all’emigrazione: Guglielmo Ferrero, Gaetano Salvemini, Giuseppe Peano, Raffaele Petazzoni, Federigo Enriques, Giovanni Vailati, Vito Volterra e via discorrendo.



Un fenomeno analogo a quello attuale: le università americane (specialmente quelle tecnologiche) sono piene di ricercatori e docenti italiani ai quali le “nostrane” hanno sbarrato la porta. Lo descrivono bene Sebastiano Bavetta (università di Palermo) e Pietro Navarra (università di Messina) nel saggio Il Vantaggio delle Libertà dove producono, tra l’altro, dati interessanti sulla riduzione dei rendimenti marginali di quel progresso tecnologico, che è stato la linfa della manifattura in Italia.

Manca, però, da anni un dibattito politico di livello sulla opportunità e desiderabilità o meno di cercare, in un’Europa sempre più integrata e in un’economia sempre più globalizzata, di andare, specialmente, in certi comparti, verso “campioni” non “nazionali” ma “europei”, con la vocazione di diventare player mondiali, giocando da protagonisti non da comprimari. L’operazione Fiat-Chrysler, sotto questo profilo, sembra spiazzare tutti poiché, prima ancora che inizi la trattativa per la Transatlantic Partnership, dà una dimensione atlantica (più che italiana o europea) a un settore portante come la metalmeccanica.

Un dibattito vero e proprio – si badi bene – è molto limitato a livello europeo, dove la politica industriale è vista essenzialmente come politica della concorrenza. È invece molto vivo da anni, quale che sia la parte politica dell’inquilino dell’Eliseo e la connotazione del Governo, nella vicina Francia, là dove nel XV secolo è nato la Stato-Nazione, dove il senso di patriottismo nazionale è molto forte e dove vige ancora la tradizione colbertista (dal nome del ministro dell’Economia di Luigi XIV) di proteggere (nel limite consentito dagli accordi internazionali) la produzione e la cultura nazionale.

Nel 2005 il Raport Beffa (dal nome del Presidente e Amministratore Delegato della Compagnie Saint Gobain, Jean-Louis Beffa, a cui l’Eliseo lo aveva commissionato) gettò un sasso nello stagno: proponeva di individuare, con i maggiori partner europei, “campioni industriali europei” con cui sostituire (anche tramite aggregazioni transnazionali) “campioni nazionali” ormai sulla via del tramonto. Sono cambiati, più di una volta, il Capo dello Stato e la maggioranza all’Assemblea nazionale francese. Un nuovo documento, il Rapport Gallois – altro noto industriale a riposo – è sul tavolo di François Hollande, che lo ha commissionato lo scorso ottobre: anche in quanto dal 2005 è stata somministrata unicamente aspirina, il documento afferma che la Francia avrà difficoltà a far fronte alla competizione mondiale (e forse pure a restare uno dei leader nell’eurozona) se non mette in atto una “terapia shock”: liberalizzazione del mercato del lavoro, riassetto della previdenza e della sanità, sgravi tributari ai settori produttivi, abbandono dei veri o presunti “campioni nazionali” in favore di “campioni europei” e via discorrendo. Il Consiglio di analisi economica della Presidenza della Repubblica francese propone un “triangolo” per un’efficiente ed efficace politica industriale “europea”: politica della concorrenza, politica della tecnologia e politica del commercio internazionale.

Non mancano esempi di “campioni europei” (dall’Airbus alla STmicroelectronics). Notevoli passi sono stati fatti, più che nel manifatturiero, nel campo dei servizi finanziari (dalle banche alle assicurazioni). La strada, però, è tutta in salita a ragione di resistenze sia di management che di lavoratori (di imprese che potrebbero diventare parte di “campioni europei”). Al ministero dello Sviluppo economico si ragiona a lungo su questi temi, con la preoccupazione, però, che entrare a fare parte di “campioni europei” potrebbe implicare una posizione minoritaria negli organi di governo e di gestione.

Il tema non è nell’agenda di governo e nelle priorità espresse dal segretario del partito di maggioranza relativa, Matteo Renzi. Tuttavia, la fusione Fiat-Chrysler, per le sue dimensioni atlantiche prima che nazionali o europee, dovrebbe indurre a fare una riflessione.