Fa notizia la mano ferma di papa Francesco contro il “carrierismo” dentro la Chiesa: tendenza per la verità apertamente denunciata già da papa Benedetto. Il quale, poco più di un anno fa, ha fornito una testimonianza personale probabilmente insuperabile: la rinuncia al soglio pontificio. Lo stesso cardinale Bergoglio, per la verità, non era stato da meno proprio nel conclave che aveva eletto pontefice il cardinale Ratzinger. L’arcivescovo di Buenos Aires, al secondo scrutino del 2005, aveva raccolto una quarantina di suffragi: tanti quanti avrebbero consentito a lui e ai suoi sostenitori (il primo era il confratello gesuita Carlo Maria Martini) quanto meno di confrontarsi con il prefetto della Dottrina della fede e con i porporati che lo appoggiavano. Che allora Bergoglio abbia rifiutato subito e recisamente una candidatura così solida è un dato ormai incontrovertibile nelle testimonianze filtrate dal riserbo della Sistina. Fuorvianti – soprattutto alla luce di quanto è avvenuto poi – si sono invece rivelate le indiscrezioni di chi avrebbe visto il cardinale argentino “atterrito”, confuso e titubante di fronte alla prospettiva di succedere a papa Giovanni Paolo II.
È ora invece pienamente evidente che quella del futuro Papa fu una scelta al più alto e consapevole livello di “anti-carrierismo”: ciò che ha sicuramente influito anche sulla maturazione della sua successiva candidatura; “vincente” nel 2013 in quanto chiaramente innervata sia nella “rinuncia” del 2005, sia poi in quella di papa Benedetto. Due momenti – certamente quello del futuro papa Francesco – aderentissimi alla spiritualità degli “esercizi” ignaziani: alla mortificazione come auto-educazione.
Qualcuno, d’altronde, continua a mostrarsi stupito del fatto che il Pontefice che lotta contro il carrierismo sia colui che, dal 13 marzo scorso, ogni giorno decide, sceglie, orienta, cambia. Nomina e avvicenda collaboratori. Mette in cantiere una riforma radicale della Curia. Sollecita gli episcopati nazionali. Indirizza il suo magistero direttamente su “main issues” come la globalizzazione economica o le pressioni e trasformazioni cui è soggetta ogni umanità personale in una società “liquida”. Senza tralasciare di intervenire – da Pontefice – in una crisi politico-militare insidiosa come quella siriana. Insomma, papa Francesco guida, dirige, riorganizza: “comanda”.
È questo che, presumibilmente, fa davvero notizia fuori dalla Chiesa: rispondendo peraltro a uno stile pastorale preciso del pontefice, che sa e vuole parlare sempre fuori dalla Chiesa nel mentre “fa il suo lavoro” di capo della Chiesa. Ma cosa dice il “leader” della Santa Sede a tanti altri leader di istituzioni e organizzazioni, variamente ma tutti duramente alle prese con una crisi “avvolgente”?
Il messaggio più forte sembra certamente questo: il “carrierismo” – cioè il perseguimento fine a se stesso di avanzamenti economico-professionali – non funziona, non costruisce ma distrugge, non produce affatto “efficienza ed efficacia”. L’alienazione del lavoro – anzitutto quello del “capo” – dalla sua missione, cioè dal suo ruolo “al servizio” della causa” (istituzionale, d’impresa, ecc.) finisce per mettere in crisi l’intera organizzazione.
Nella Chiesa il “mestiere” del pastore – la sua missione – è e non può che essere quella di annunciare il Vangelo e di farlo vivere. E l’imprenditore? Deve produrre buoni prodotti e servizi: certo, misurandosi con la concorrenza sul terreno della redditività della gestione e dell’investimento. Ma il profitto è – e non può non essere – il risultato di un “buon” lavoro d’impresa, non una “creazione di valore finanziario” che alla fine scavalca, combatte e soffoca il “valore economico reale” del lavoro complesso dell’imprenditore e dell’impresa. Snellire la Curia, mettere allo studio il disimpegno della Santa Sede dalle attività finanziarie, mettere in discussione alcuni standard para-meritocratici che si erano solidificati anche dentro la Chiesa è così un “segno di contraddizione” diretto, anzitutto, a un capitalismo sotto fortissima pressione culturale: quel “mondo” accusato di essersi definitivamente “alienato” nel passaggio dalla sua pur problematica natura industriale a quella della turbofinanza.
Cos’è più simbolico di crisi e declino di un top manager drammaticamente alienato dal suo lavoro in quanto felicemente avviluppato nella spirale di bonus e stock-option agganciati alla performance trimestrale del titolo in Borsa? Cosa di più “irreale e irrazionale” di un capo d’azienda i cui redditi sono centinaia di volte quello dei suoi dipendenti? È il concretissimo “carrierismo” contro cui si batte il Papa: lontano da ogni moralismo preconcetto, attaccatissimo alla ragione, alla realtà. È l’antico e modernissimo dilemma posto dai giuristi d’impresa: l’obiettivo degli armatori di chiatte sul Reno – recita un celebre adagio di storia del diritto – è fare utili o rendere quanto più veloce e sicura la navigazione di quante più merci e persone? È il dualismo (lo scollamento) – mai risolto fra le sponde della Manica e poi dell’Atlantico – fra “oggetto” e “scopo” di una società.
(C’è dell’altro: l’incarico “senza grado”, la leadership come funzione orizzontale, l’esercizio dell’autorità messo sullo stesso piano dell’esercizio di qualsiasi altra funzione utile al disegno organizzativo è la frontiera sempre più visibile del management nel XXI secolo. In un’economia d’impresa “realizzata” le funzioni direttive – non diversamente da quelle di chi provvede al finanziamento dell’impresa, banche o mercati – sembrano destinate ad avere un ruolo molto più equilibrato rispetto a tanti altri attori, a tutti gli “stakeholder”. Ma qui papa Francesco pare davvero “scappato in avanti”: rispetto a un mondo che nell’ultimo decennio sembra precocemente invecchiato. Proprio mentre lui si dedicava ai suoi definitivi “esercizi spirituali” prima di assumere una “monarchia” talmente assoluta da saper sempre rinunciare a ogni primato che non sia quello della sua millenaria missione sulla terra).