L’economia europea non naviga in buone acque: lo ha confermato l’indice Pmi manifatturiero dell’Eurozona, che a settembre è sceso a 50,3 punti dai 50,5 della precedente rilevazione. Un dato che si aggiunge alla constatazione di Mario Draghi: “La ripresa dell’Eurozona perde slancio”. E a Napoli il board della Bce si è limitato a confermare le iniziative già prese un mese fa, mentre da da diverse parti si chiede un Quantitative easing, un acquisto cioè di titoli di stato, da parte dell’Eurotower. Per i sostenitori di questa politica, un elemento che dovrebbe convincere Draghi è dato dal fatto che, come si è visto nei giorni scorsi, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, paesi dove le banche centrali hanno compiuto scelte espansive, il Pil è cresciuto. Per Enrico Colombatto, professore di Politica economica all’Università di Torino, di fronte a questi dati «occorre guardare alle caratteristiche strutturali delle diverse economie, che prescindono dalle azioni che possono intraprendere le banche centrali».
E cosa ci dicono queste caratteristiche strutturali?
Che la differenza sostanziale tra Usa e Uk, da una parte, ed Eurozona, dall’altra, è che le prime sono economie molto più agili e flessibili. Possiamo anche dire che non hanno il nostro stesso welfare, ma se una persona vuole lavorare trova un’occupazione, se vuole aprire un’impresa non incontra centinaia di ostacoli, il sistema giudiziario è relativamente rapido, con tutte le pecche che i sistemi anglosassoni possono avere. In Europa, a furia di garantire a destra e a manca, di convivere con un sistema giudiziario lento, non si intraprende e quindi l’economia ristagna: è già un miracolo essere in stagnazione e non in recessione. L’Italia soffre poi di un problema particolare.
Quale?
I cicli economici ci sono sempre, così come settori che vanno meglio di altri: il segreto di un’economia è liberare risorse dai settori che vanno peggio e creare un contesto adeguato perché tali risorse vengano impiegate nei settori che vanno meglio. Noi soffriamo non solo o non tanto per le imprese che vanno a fondo, ma soprattutto per la mancanza di imprese che nascono e assorbono le risorse lasciate libere da quelle che chiudono. Il sistema fiscale pesante, e soprattutto con poca certezza, rende gli investimenti esteri ancora più difficili.
Da diverse parti si invoca una politica espansiva ancora più forte da parte della Bce, con un vero e proprio Quantitative easing. Lei che cosa ne pensa?
Di per sé l’acquisto di titoli di stato non crea ricchezza: è una forma di salvataggio. Se è vero, come tutti dicono, che i nostri paesi sono sovraindebitati, che hanno vissuto e continuano a vivere al di sopra delle loro possibilità, l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce non crea risorse ulteriori, ma consente anzi il perdurare di una situazione anomala: permette a chi vive sopra le proprie possibilità di continuare a farlo. Non si risolve quindi il problema di bilancio, semmai lo si aggrava. I tagli sono dolorosi, ma è meglio tagliare subito che continuare a spendere e trovarsi poi con un debito che non si riesce a rimborsare.
Dunque meglio seguire politiche di austerità?
Sono contro l’austerità “all’italiana”, che si traduce cioè in un aumento dell’imposizione fiscale, ma sono a favore di un’austerità intesa come riduzione del settore pubblico. Occorrono dei cambiamenti strutturali, che non si possono sostituire, come avviene da noi, con una “spremitura” del settore privato senza riduzione della spesa pubblica. Il propulsore di un’economia, checché ne dicano i keynesiani, non è il settore pubblico. Ho visto pochi burocrati e politici creare ricchezza, ma ho visto molti imprenditori privati farlo. E l’austerità intesa come aumento delle tasse non fa crescere di certo la ricchezza.
Il Governo si prepara a presentare la Legge di stabilità, garantendo di rispettare i vincoli europei. Cosa dovrebbe fare per smuovere l’economia?
Occorre diminuire le imposte e allo stesso tempo la spesa pubblica. O siamo in grado di ridurre il peso dello Stato, inteso anche come regolamentazione e non solo come imposizione fiscale, oppure non andiamo da nessuna parte. Rispettiamo quindi i vincoli europei tagliando lo Stato. E riformando le regole del gioco, con più libertà contrattuale, semplificazione fiscale, razionalizzazione del sistema giudiziario.
Ha parlato di liberta contrattuale: l’articolo 18 va quindi abolito?
L’articolo 18 è diventato una specie di feticcio, andrebbe superato. Non illudiamoci però che toccandolo risolveremo tutti i problemi dell’economia italiana. Abbiamo tante imprese piccolissime e dobbiamo fare in modo che le regole – articolo 18 e non solo – consentano a queste aziende di crescere. In un mondo globalizzato non si può competere con un’azienda famigliare di 5 dipendenti. Ci vuole libertà contrattuale nel mercato del lavoro. Qualcuno potrà dirmi che questa è macelleria sociale. Il fatto è che bisogna creare occasioni di investimento e siamo di fronte a un’alternativa tra disoccupati super garantiti e occupati che devono vendere il loro capitale umano sul mercato del lavoro.
Cosa significa concretamente questa libertà contrattuale?
Vuol dire che un datore di lavoro e un lavoratore o i suoi rappresentanti si siedono a un tavolo e contrattano stipendio, durata del rapporto di lavoro e mansioni che si possono o meno cambiare. Penso che sarebbe giusto che chi vuole un contratto a tempo indeterminato guadagni meno di chi ne ha uno a tempo determinato. Nei contratti si potrebbe prevedere anche un sistema pensionistico privato. Del resto oggi lo Stato di fatto chiede ai cittadini di pagare due volte: la pensione pubblica e quella privata. Tanto vale privatizzare gradualmente il sistema.
Lei prima ha detto che occorre tagliare lo Stato. Vuol dire che bisogna ridurre gli organici della Pubblica amministrazione?
Il settore pubblico vive una situazione particolare: vi sono casi di eccesso di personale e anche casi dove invece vi è una carenza. Il problema però non deve partire dall’eliminazione del dipendente pubblico, ma dalla cancellazione di alcune funzioni della Pubblica amministrazione: a quel punto si andrà a vedere chi non serve più. Mi spiego meglio.
Prego.
Oltre ai dipendenti pubblici “fannulloni” o assunti con criteri clientelari, ve ne sono altri la cui funzione è giustificata da un carico burocratico che non ha alcun senso. Se noi alleggeriamo il peso burocratico potremo avere meno burocrazia e quindi avere del personale da trasferire, prepensionare o licenziare. Non facciamoci però troppe illusioni: espandere il settore pubblico è sempre stato un modo per acquisire consensi e voti, quindi è difficile licenziare lavoratori statali, non perché sia tecnicamente impossibile, ma perché chi lo fa perde le elezioni.
Cosa si può fare allora?
Meglio congelare le assunzioni: con la popolazione che invecchia rapidamente, il numero dei dipendenti statali diminuirà col tempo. Si possono anche privatizzare alcuni settori, come l’istruzione. Il che non vuol dire renderla necessariamente a pagamento, ma fare in modo che ci sia un sistema di voucher che sussidia lo studente e non più un sistema come quello attuale che sussidia l’insegnante o il dipendente del Miur.
E la spending review, i tagli di Cottarelli?
Secondo me, è tutto fumo negli occhi. Per capire quali sono gli sprechi della Pubblica amministrazione basta guardarsi attorno, non servono dossier. E se si vuole tagliarli basta farlo, senza bisogno di nominare commissari o esperti. In Italia di solito quando vogliamo perdere tempo nominiamo una commissione. Tanto meglio se è di esperti.
(Lorenzo Torrisi)