C’è una grossa differenza tra la crisi attuale e quelle che l’hanno preceduta, spiega Romano Prodi. In passato, dalle crisi sistemiche si usciva tutti assieme, stavolta no. La frattura ha investito i modi di produzione, le tecnologie e gli equilibri di mercato. Come risultato, dopo esser entrate più o meno assieme in crisi a metà del passato decennio, le economie si muovono in ordine sparso: gli Stati Uniti, nonostante una grave crisi di leadership della Casa Bianca che minaccia di aggravarsi con le elezioni di midterm, sono ormai fuori dall’emergenza. La Cina, pur con tutti i problemi del caso (ambiente, rivendicazioni democratiche, rischio di bolla immobiliare) avanzano con un tasso di crescita robusto: il 7-7,3% previsto, dopo i passi in avanti del Pil negli ultimi anni, vale più del 10-12% del passato, quando l’economia cinese era in uno stadio più arretrato. E l’Europa? Il Vecchio Continente, avvitato in una logica autoreferenziale, stenta a rimettersi in moto.



Fin qui nulla di nuovo. Ma in settimana, forse, qualcosa di nuovo è maturato: il mondo sembra essersi stancato di attendere la ripresa europea che, viste le terapie adottate, rischia di non arrivare mai. Vediamo i sintomi di questa incipiente eurofobia.

A) L’economia Usa si è congedata dal Quantitative easing. In parallelo, i dati preliminari del Pil del terzo trimestre segnalano che la locomotiva Usa sta prendendo velocità: +3,5% dopo il rialzo del 4,6% registrato nei tre mesi precedenti su cui influiva lo stop del precedente grande freddo invernale. Ma la vera novità non sta nei numeri, semmai nei toni usati dalla Fed per dipingere la congiuntura: basta con litania ripetuta all’infinito della ripresa fragile, degli occupati che in realtà hanno un lavoro finto, dell’inflazione troppo bassa, di un’economia bisognosa di stampelle e di tassi mantenuti a zero per l’eternità. Insomma, per dirla con Alessandro Fugnoli di Kairos, il messaggio ai mercati suona così: “Non solo ritiriamo il Qe, ma ci riserviamo di alzare i tassi quando sarà il momento. Poiché non siamo falchi vi lasceremo ancora qualche mese di tempo, ma toglietevi dalla testa quell’idea balzana che abbiamo cominciato a sentire in giro, quella che dice che i tassi, con una scusa o con l’altra, non li alzeremo mai”.



B) La novità comporta alcuni aspetti positivi per l’Europa, a partire dalla ripresa del rafforzamento del dollaro. Ma solleva nuovi dubbi sulla strategia del Vecchio Continente. In Usa, gli stress test del 2009 sul sistema bancario furono l’anticamera di un intervento robusto a suon di iniezioni di capitali per restituire al sistema del credito la necessaria elasticità di azione e la potenza di fuoco adeguata per assistere l’economia. In Europa, nemmeno una settimana dopo la gigantesca operazione di scrutinio delle banche, emerge la sensazione che gli istituti di credito, anche i più premiati, non siano ancora fuori dal guado. Anzi, molto più di una sensazione visto che, tanto per farci del male, ieri il presidente della European banking association, Andrea Enria, ha dichiarato in una conferenza a Berlino che “le banche, anche quelle che li hanno superati, non dovrebbero sentirsi troppo al sicuro dopo gli stress test”.



C) Gli esami, insomma, non finiscono mai. O meglio, forse non ha senso misurare lo stato di salute di banche stressate dalla crisi economica senza prevedere interventi che consentano al sistema di fare un salto di qualità. Ovvero, le banche stanno meglio di un anno fa, grazie all’iniezione di capitali (in specie dagli operatori internazionali) e dopo una tremenda cura dimagrante (200 miliardi di impieghi in meno per l’Italia rispetto a cinque anni fa). Ma se non si rimuovono le cause della crisi, presto le cose torneranno a peggiorare, assieme alle condizioni di salute della clientela e alle quotazioni dei titoli di Stato che con le loro plusvalenze hanno consentito finora alle banche di galleggiare.

D) Occorre, dunque, cambiare passo, procedendo verso azioni di fiscal policy che consentano un salto di qualità: i 900 miliardi messi in campo dagli Usa o i quasi 600 della Cina nel 2009. Mica i 300, del resto già in portafoglio, che l’Ue intende mettere in circolo nei prossimi tre anni. La politica non convenzionale, dimostra l’esperienza americana, può funzionare. Ma se la Germania si oppone a una politica fiscale di intervento, nonostante, come capita, i mercati sono disposti a finanziarla con tassi a 30 anni sotto lo zero, allora la stagnazione è sicura.

E) Inutile, insomma, perder tempo e denaro con altri test e analisi, buoni a dar lavoro ai non pochi burocrati (come Enria) che prosperano nell’Ue: o si rimette in moto la domanda o non si va da nessuna parte. Mario Draghi ne è consapevole, ma le armi a sua disposizione sono per ora insufficienti: i primi acquisti di covered bond non hanno superato i 2-3 miliardi, la domanda di Abs, visto il clima post-esami, non promette granché.

F) In questa cornice è assai difficile che le banche possano attivare una corrente di credito per l’economia italiana. Intanto, la via della Borsa si rivela in salita, come dimostrano i numerosi ritiri delle matricole da Piazza Affari. Se la cava solo chi, come Fca (vedi Ferrari) o Atlantia (vedi Adr), può ricavare valore (vedi quattrini) cedendo quote di partecipazioni ambite. Sono mosse obbligate per restare in partita, nonostante gli ostacoli frapposti dalla filosofia imperante tra Berlino e Bruxelles. Ma se la Germania continuerà negare perfino l’esistenza del problema di far ripartire la domanda, scrive Martin Wolf sul Financial Times, “il disastro sarà inevitabile”.