Mille miliardi, ma per fare cosa? Giovedì scorso, Mario Draghi ha detto che il bilancio della Bce tornerà al livello del marzo 2012 quando ammontava a tremila miliardi di euro, il che significa aggiungere mille miliardi acquistando titoli, sostenendo le banche, le imprese e forse i governi. Jens Weidmann, capo della Bundesbank ed eterno bastian contrario, ha precisato che si tratta di un auspicio; anche se questa volta ha votato a favore, non farà mancare il suo no se si adottasse un Quantitative easing all’americana. Secondo attenti osservatori, le probabilità che si arrivi al Qe sono del 75% se la disinflazione diventerà vera deflazione. Vedremo.
Mille miliardi sono un decimo del Pil dell’Eurolandia, un prodotto lordo destinato a ristagnare nei prossimi anni a meno che non arrivi una spinta robusta che rimetta in moto la macchina. La stagnazione è conseguenza di una paralisi della domanda aggregata che si compone di consumi e di investimenti. Aumentare la quantità di moneta è essenziale per impedire una nuova crisi di liquidità come quelle che si sono verificate nel 2007 nel 2008 e nel 2011. Tuttavia, bisogna creare le condizioni perché ripartano gli investimenti privati. Come e dove?
In un rapporto del maggio 2013, McKinsey Global Institute ha messo in fila dodici tecnologie che hanno l’impatto potenziale di rivoluzionare ancora una volta l’economia mondiale: 1) internet mobile; 2) software intelligente: 3) internet applicata ai processi decisionali, nella produzione e nei servizi; 4) tecnologie cloud; 5) robotica avanzata; 6) veicoli autonomi o semi-autonomi; 7) la nuova generazione della genomica; 8) conservazione dell’energia, comprese le batterie; 9) stampanti 3D; 10) materiali avanzati; 11) shale gas e nuove esplorazioni petrolifere; 12) energie rinnovabili.
Come si vede sono campi che coinvolgono scuola e industria, ricerca e produzione. In quale di essi l’Europa può vantare un primato? Forse nelle energie rinnovabili e nella ricerca genetica, in tutto il resto è nettamente indietro rispetto agli Stati Uniti, mentre la Cina corre all’inseguimento.
Jean-Claude Juncker ha promesso 300 miliardi, pari al 2,7% del Pil dell’area euro, dunque una quota molto modesta. Non si sa ancora se si tratta di nuovo denaro fornito dai governi, dalla Bei o da altre istituzioni creditizie. Capirlo è essenziale per sapere se verrà davvero una spinta o un massaggio. Ma ancor più fondamentale è capire dove andranno a finire. L’Ue ci ha abituati a progetti faraonici quanto irrealizzati, si pensi ai grandi corridoi ferroviari, o a erogazioni a pioggia finite per alimentare la speculazioni immobiliari, come accaduto in Spagna e in Grecia. Dunque, è essenziale non ripetere queste esperienze disastrose.
Non si tratta di varare megapiani pubblici irrealizzabili, ma di combinare incentivi di Bruxelles e progetti privati. Nell’un caso e nell’altro è utile guardare all’esperienza americana. Prendiamo due esempi chiave: le banche e l’automobile.
Gli stress test della Bce hanno messo in luce che bisogna ripulire le banche europee di crediti inesigibili per via della recessione e di titoli marci a causa degli eccessi ante crisi. Nel primo caso il beneficio maggiore sarebbe per le banche italiane e spagnole, nel secondo per quelle tedesche e francesi. Nell’uno e nell’altro servirebbe a liberare l’organismo del credito. Come? Attraverso strumenti nazionali tipo la bad bank proposta da Mediobanca o con un’operazione coordinata a livello europeo che si ispiri al modello Usa? Quest’ultima strada sarebbe migliore, ma in ogni caso questa e una priorità della quale non si parla ancora ed è strettamente legata al rilancio del credito e degli investimenti.
Non solo. Gli Stati Uniti hanno solo salvato l’industria automobilistica, favorendo la sua ristrutturazione. Anche l’auto europea è in uno stato comatoso, il mercato si è ridotto, ci sono troppi produttori, alcuni a rischio altissimo, come Peugeot, Opel, la stessa Fiat alla quale non basta l’integrazione con Chrysler. Ma attenzione, se si va a guardare il bilancio della Volkswagen si vede che guadagna solo Audi, tutto il resto è in perdita. Un progetto europeo che favorisca il rilancio su basi nuove della “industria delle industrie” (quindi non un piano assistenziale) avrebbe un grande impatto.
Ci sono altri settori nei quali l’Ue potrebbe avere un ruolo di punta, si pensi alla farmaceutica con l’integrazione tra laboratori privati e centri di eccellenza pubblici. O all’energia, tanto più dopo la crisi Ucraina. Cosa succede al nucleare? E al carbone? Esistono alternative al gas russo? Sulle nuove perforazioni si procede in ordine sparso. L’unica cosa certa è che l’Unione non ha una politica energetica.
C’è poi la vexata questio sulla banda larga e le nuove frequenze della telefonia mobile. Le infrastrutture possono essere messe in comune dai grandi gruppi privati sotto una regia e un sostegno dell’Ue? Gli Stati Uniti che erano più indietro, soprattutto nel mobile, oggi hanno un primato assoluto nelle connessioni via cavo e sono in testa anche per quelle via etere.
Nel dibattito sul ritorno all’investimento manca insomma una riflessione sui contenuti. Si debbono individuare, invece, alcune priorità (poche, ma dal grande effetto moltiplicatore) verso le quali canalizzare le disponibilità esistenti. Quelle attuali sono misere e andrebbero ampliate, tuttavia le risorse restano comunque scarse; quindi è essenziale scegliere e farlo bene. Su questo va aperta la discussione. Nessun Governo lo sta facendo, Renzi potrebbe lanciare la palla, visto che per noi la ripresa produttiva è una questione di vita o morte.