Angela Merkel ha scritto una lettera quasi implorante al governo di Stoccolma. Per noi è di vitale importanza, recita la missiva, che la svedese Vattenfall, di proprietà statale, non rinunci a investire in due nuove miniere di carbone nel nord della Germania. La decisione del gruppo scandinavo è motivata dalla preoccupazione svedese di ridurre le emissioni di C02 nell’area che fronteggia il mar Baltico. Ma se non potremo contare su questo carbone, si lamenta il premier tedesco, andranno a rischio i piani di Energiewende, il piano di Berlino per rivoluzionare il settore energia: eliminazione del nucleare entro il 2022, crescita a ritmi sostenuti dell’impiego di energia rinnovabile che dovrà fornire entro il 2035 più di metà del fabbisogno. Fino al “sol dell’avvenire”: l’80% di energia da eolico, solare e fotovoltaico nel 2050. Ma che per ora impone, per evitare black out, un largo ricorso al carbone, spacciato (potenza delle lobbies…) per energia verde.



La notizia già di per sé paradossale, è arrivata a ridosso del vertice Opec di ieri, chiamato a prender atto della crisi dei prezzi del petrolio, destinata probabilmente a proseguire per tutto il 2015, se non oltre. All’origine del tracollo dei prezzi (finora il 30% negli ultimi sei mesi) non c’è tanto, come sospetta Vladimir Putin, un complotto per punire la Russia per la crisi ucraina, bensì l’eccesso di capacità produttiva, conseguenza degli investimenti nel settore degli anni scorsi, dal 2010 in poi. Il quadro, poi, è stato rivoluzionato dall’irruzione sulla scena dello shale oil americano che ha catapultato gli Usa ai vertici della classifica mondiale dei produttori.



Oggi gli Stati Uniti dipendono sempre meno dal greggio d’importazione: continuano a comprare oil dall’Arabia Saudita e dal Venezuela, ma hanno azzerato gli acquisti dalla Nigeria e dal Nord Africa. Presto, una volta completata la rete di gasdotti, oleodotti e raffinerie necessaria per far fronte alle nuove esigenze, cominceranno a esportare greggio. Prima ancora, nasceranno impianti chimici e altre industrie energivore in terra americana.

Il trend, insomma, sembra destinato a proseguire. L’uso del dubitativo è d’obbligo palando di petrolio, mercato sottoposto a tante sollecitazioni politiche, finanziarie ed economiche di vario segno che si presta a costante sorprese, a danno dei “guru” che, in genere, sbagliano le previsioni. Ma, per quel che si può capire, il trend è destinato a durare almeno finché non si troverà un nuovo equilibrio tra interessi dell’Arabia Saudita, che resta il Paese chiave del petrolio, e gli Usa. Giocano gli interessi politici: l’Arabia Saudita ha necessità di ribadire la sua leadership nella regione. Il calo del petrolio è stata, finora, l’unica mossa efficace della strategia anti- Putin di Obama. Le cose cambieranno, semmai, quando Riyad avrà raggiunto un’intesa con i concorrenti americani.



Finora l’Arabia Saudita ha puntato sul calo del greggio per testare la capacità di resistenza dei produttori di shale oil americano di fronte a un calo dei prezzi. Ma presto il braccio di ferro coinvolgerà i nomi forti di Wall Street: i big, da Morgan Stanley a Goldman Sachs, hanno perso grosse cifre nel trading di commodities; Barclays e Wells Fargo hanno lasciato sul terreno 850 milioni di dollari in un prestito ponte per un merger tra società del settore americane. Il 15% dei junk bonds in circolazione sui mercati finanziari è legato a operazioni che riguardano il settore energia. Prima o poi, insomma, la pace sarà necessaria. Trattasi di capire se avverrà prima o dopo un passo indietro di Putin da Donetsk.

Comunque vada, l’andamento del settore energia promette di essere positivo per i consumatori di energia, tra cui spicca l’Europa (Italia in testa). Il calo della bolletta energetica ha già avuto effetti benefici sulla bilancia commerciale italiana (saldo positivo di 28 miliardi nei primi 9 mesi del 2014). Una delle tre buone notizie che fanno prevedere un avvio d’anno migliore: oltre al greggio, infatti, cala l’euro (10 centesimi in meno sul dollaro valgono un punto di Pil), mentre, finalmente, l’azione di Mario Draghi comincia a portare buoni frutti. Cala il costo del finanziamento del debito pubblico, ma anche, timidamente, per le imprese. La stessa Confindustria, poi, riconosce che, ancor prima che producano effetto gli acquisti della Bce, il credito torna ad affluire anche verso le piccole imprese.

Tutto bene? Andiamoci piano. Come ha ammonito Draghi, “deve essere chiaro che la politica monetaria non può fare da sola tutto il lavoro pesante. Tutti gli attori del campo politico, sia livello nazionale, sia a livello europeo, devono fare la loro parte”. Il che ci riporta alle due miniere di carbone in terra di Germania, energia tutt’altro che pulita che frau Merkel rivendica come necessaria nella lunga e (costosa) marcia verso l’energia verde.

L’Europa, dopo aver subito nel passato la concorrenza dell’Asia sul costo del lavoro, sta accumulando un pesante gap di competitività nei confronti degli Usa sul terreno dell’energia. Le industrie americane beneficiano di un costo dello shale gas pari a circa un terzo del costo europeo. Ne deriva un vantaggio quasi incolmabile in materia di competitività, ma anche, se non soprattutto, uno stimolo poderoso a investire in nuove industrie, e dalla chimica alle raffinerie, dalla siderurgia (in Italia ormai in stato comatoso) all’alluminio.

Un trend industriale davanti al quale i trasferimenti dallo Stato ai privati per sussidiare il costo dell’energia all’Ast di Terni o nel Sulcis appaiono un po’ ridicoli, un po’suicidi perché non serviranno a trattenere gli investitori nel medio-lungo termine. Non è un problema solo italiano: la tedesca Basf destinerà agli Usa un quarto circa dei suoi investimenti; l’austriaca Voestalpine costruirà la sua prossima acciaieria in Texas. E così via.

In questa cornice, è difficile che il Quantitative easing europeo possa stimolare le imprese, sia quelle europee che degli altri, a scegliere l’Europa come base per investimenti produttivi. È una ben triste prospettiva, in parte senza rimedio vista la leadership americana nello shale gas. Ma che non si può ignorare o snobbare in attesa del traguardo “verde”del 2050. Nel frattempo, gli effetti del calo dei prezzi del greggio non sono eguali per tutti.