Sono arrivate le previsioni autunnali della Commissione europea. Si tratta di dati sostanzialmente in linea con le prospettive per l’economia italiana 2014-2016 presentate lunedì dell’Istat. In sintesi, questi studi ci dicono che è iniziata una fase di stagnazione che durerà sicuramente un anno e forse due (?) e ci ricordano, solo indirettamente, che la ripresa si intravede già nel 2015, per poi correre nel 2016. Ma per l’oggi si parla di stagnazione. Coraggiosi: ciò avviene dopo più di un decennio in cui abbiamo perso 20 punti circa di Pil.
La domanda effettiva – sia essa di stock di capitali fissi, sia essa di forza di lavoro, ossia di persone che lavoravano, creavano plusvalore e consumo tramite il reddito speso e non risparmiato – si è distrutta: una quantità enorme di vite umane, di scorte, di innovazioni tecnologiche che ora non possiamo più recuperare. Possiamo però ricominciare da dove siamo rimasti e ripartire
Lo scenario mondiale non è dei più benefici, anzi. I Brics sono in ristrutturazione: per la crescita ora si deve essere meno export lead e ricercare più crecimiento hacia adentro, ossia con l’aumento della domanda interna. I Brics, va sottolineato, hanno già iniziato un protezionismo su cui da solitario ho insistito più volte senza essere ascoltato. Dopo la nomina di Azevedo al Wto, questo protezionismo si è ora scatenato con le misure anti-trattati di libero scambio multilaterali intraprese dall’India di Modi, che gli osservatori europei avevano salutato con gioia, essendo lui filo business, e dimenticando che lo è ma è un business filo indiano e non multilateralista.
Anche il Trans Pacific Pact incontrerà i suoi ostacoli, dettati da una politica consimile anche da paesi di fatto anticinesi ma che non vogliono fare il sacrificio economico e culturale che si appresta invece a fare un’Europa stremata e confusa sotto il tallone di un Patto transatlantico che è una sorta di colonizzazione giuridica, prima che economica, dell’industria e dell’agricoltura europea da parte di quelle nordamericane. Tutte e due i continenti sbagliano: gli europei a chiudersi a riccio, gli Usa a non negoziare mentre sfruttano il conflitto contro la Russia per far dimenticare i loro errori da grande potenza, sfoderando lo spirito di un bottegaio che non può con quello spirito appunto dominare il mondo (e questo è un terribile guaio).
Che fare? Occorre innanzitutto non cadere nella cosiddetta sindrome giapponese o trappola di liquidità. Ossia, sottovalutare i pericoli della deflazione. I tassi di interesse vanno abbassati e fortemente (ricordate la Svezia che nel 2011 li alzò ed entrò in recessione da deflazione?). E questo si è fatto. Poi occorrono politiche monetarie tipo Fed e Bank of Japan, che non si sono fatte se non per salvare le banche e solo recentemente si sono inventati marchingegni per incentivare le banche a erogare crediti alle imprese, ma con scarsissimo successo.
Le misure che ora si vorrebbero prendere assomigliano al peggiore dei mali. Ovvero l’incentivazione all’acquisto di strumenti finanziari tipici delle shadow banks, ossia debiti collateralizzati/assets backed Securities, che possono stravolgere il bilancio stesso della Bce senza raggiungere i risultati sperati. In ogni caso questo amore per i derivati si misura in Europa ormai attraverso il dominio degli stress test della medesima Bce che ha valutato positivamente gli investimenti in derivati delle banche francesi e tedesche, colpendo invece pesantemente i passivi creditizi che in ogni caso sono strumenti tipici dell’economia reale sul parametro dei quali bisognerebbe valutare le banche. Uno dei pochi a sollevare questo tema, oltre a Rocco Corigliano su queste pagine, è stato Giuseppe De Lucia Lumeno (su Libero del 2 novembre).
Bisogna quindi puntare sull’immediata riforma delle banche, dividendo quelle d’affari da quelle commerciali, utilizzando tutti gli strumenti giuridici per far ciò nonostante le normative europee. Ma subito va incentivato il settore trainante dell’economia italiana che non è il food o il lusso. Per carità, ci sono e fanno bene a esserci, anche se ormai tutti protesi alla produzione all’estero (non il food certo, ma la moda sì), salvo pochissime e meritevoli eccezioni (Cucinelli docet). Il settore in cui l’Italia è prima nel mondo con una funzione anticiclica è la meccanica robotizzata e non, fondata sulle nanotecnologie e il web, che unisce capacità idiosincratiche degli operatori operai e tecnici e capacità di rischio calcolato di imprenditori altrettanto fantastici.
Sorreggere questo settore è essenziale, sviluppando una filiera plurima di multitecnologie collegate con istituti tecnici e università a rete nel territorio. Rivalutare il lavoro operaio e tecnico è essenziale. Valorizzare il lavoro operaio qualificato è la via di salvezza e ciò può avvenire in pochi anni.
Infine, occorre riprendere in mano lo Stato imprenditore non che entra come azionista nelle imprese private per salvarle (modello Iri). Bisogna infatti rinverdire e riqualificare il modello Eni, ossia creare ex novo imprese pubbliche con governance sulla forma del monocratico trust anglosassone, senza board lottizzati ma amministratori responsabilizzati sui risultati. In tal modo occorre intervenire nella banda larga delle telecomunicazioni. Bisogna poi sostenere le piccole e medie imprese con tutti quei beni statali diretti alla Total factor productivity, che consentono alle aziende di ogni dimensione di non avere gravami né burocratici, né di diseconomie esterne.
Si negozi il tutto in Europa. Non si tema di sforare deficit e Fiscal compact rimettendo tutto ciò che si è fatto sin qui in discussione. Se non lo fa l’Italia per prima tra poco tempo lo faranno i tedeschi, stremati. Certo, possono morire con tutti coloro che sono sulla zattera europea non riformata e ricostruita secondo le regole non monetariste ma politiche che ancora possiamo inverare, purché si aboliscano tutte le sottrazioni di sovranità ordoliberiste. Ma non credo che si possa ripetere il modello del bunker di Hitler e quindi continuo a sperare.