I fine settimana sono utili anche per assimilare rapporti, documenti e dati che nei giorni feriali hanno avuto una lettura superficiale, specialmente in quotidiani dove la pressione a “chiudere” non permettere di cogliere le sfumature. Ad esempio, il 27 novembre (Giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti) è stata data molta enfasi, soprattutto in televisione, all’utile “Congiuntura Flash”del Centro Studi Confindustria (Csc), un documento che, proprio perché di poche pagine, richiede un’attenta lettura.



In effetti, mentre gran parte dei “mezzi busto” televisivi hanno sbrigativamente parlato di “ripresa dietro l’angolo” e alcune testate di livello hanno annunciato “una ripartenza in primavera”, il testo è molto più cauto: si limita a sottolineare come una crescita zero del Pil nel quarto trimestre (ma il dato sarà noto solo a fine gennaio/inizio febbraio) sarebbe “una buona base” per indicare che dopo sette anni di recessione si sta ricominciando a crescere. Soprattutto, la nota Csc enfatizza che “le riforme strutturali danno frutti nel medio periodo, ma nel breve rispondono al cambiamento e infondono fiducia”. 



In parallelo con la nota Csc, è stato diramato il breve, ma succoso, rapporto mensile Istat sul clima di fiducia delle imprese; a novembre 2014 l’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, scende a 87,7 da 89,1 di ottobre. Il primo grafico a fondo pagina mostra a tutto tondo come non si sia ancora alla fase in cui riforme (peraltro in gran misura solo enunciate in termini approssimativi) infondano fiducia.

Contemporaneamente, l’Istat ha diffuso il rapporto periodico sulla produttività e competitività (si veda il secondo grafico a fondo pagina). In breve, il sistema è affaticato. Una ragione è la frammentazione. Le imprese attive dell’industria e dei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano circa 16,1 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni sono dipendenti. La dimensione media si conferma di 3,7 addetti. La spesa sostenuta per gli investimenti ammonta a circa 92 miliardi di euro e il valore aggiunto realizzato a circa 690 miliardi di euro.



Nell’industria in senso stretto, le imprese attive sono 437.650, assorbono 4,2 milioni di addetti – in larga maggioranza dipendenti (3,6 milioni, pari al 32,2% dei dipendenti complessivi) – e realizzano circa 245 miliardi di euro di valore aggiunto. All’interno del segmento delle microimprese, risulta rilevante la presenza di imprese con non più di un solo addetto (2,4 milioni di unità), che realizzano un terzo del valore aggiunto di questo segmento dimensionale. Le fasce dimensionali delle piccole (circa 190.000 unità con 10-49 addetti) e delle medie imprese (circa 21.000 unità con 50-249 addetti) assorbono rispettivamente 3,3 e 2 milioni di addetti, con una presenza relativa importante soprattutto nell’industria.

Clima di fiducia delle imprese (gennaio 2008-novembre 2014, indici destagionalizzati base 2005=100).

Imprese, addetti e valore aggiunto prodotto per macrosettore di attività economica e classe di addetti (anno 2012, composizioni percentuali).

D’altro canto, le grandi imprese ammontano a circa 3.400 unità e impiegano 3,1 milioni di addetti su oltre 16 milioni. Alla produzione del valore aggiunto complessivo contribuiscono per il 22,3% le microimprese dei servizi, seguite dalle grandi imprese dei servizi (17,1%) e dalle grandi imprese dell’industria in senso stretto (13,8%). Le imprese delle costruzioni con almeno 10 addetti forniscono il contributo più basso alla realizzazione di valore aggiunto (in totale 3,7%).

Ancora più preoccupante il quadro occupazionale (nel grafico a fondo pagina). A ottobre 2014 gli occupati sono 22 milioni 374 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e sostanzialmente stabili su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410 mila, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,9%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5% rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al 35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8 punti su base annua.

Ciò indica l’urgenza di una politica industriale volta non a sussidiare questo o quello, ma a facilitare, anche tramite concentrazioni e fusioni, maggiori dimensioni medie d’impresa – essenziali per raggiungere adeguate economie di scala e un’efficiente utilizzazione di ammodernamenti tecnologici.

Sempre poco prima del fine settimana è stato pubblicato l’annuale Indice delle Liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni. In effetti, produttività e competitività internazionale non miglioreranno se in Italia non aumenta la concorrenza. Rispetto allo scorso anno siamo leggermente risaliti in graduatoria. L’Indice 2014 considera 15 paesi europei in dieci settori: da quest’anno, anche le assicurazioni (peccato per l’assenza delle banch – Ibl si propone di rimediare a breve). Rivela un’Italia ancora arretrata per apertura del mercato: voto 66 su 100, poco più che sufficiente, benché alla pari con Francia e Danimarca.

 

 

Tasso di disoccupazione (ottobre 2013-ottobre 2014, dati destagionalizzati, valori percentuali).

È una valutazione in linea con la denuncia fatta il 13 ottobre da Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust («Italia chiusa, si acceleri sul digitale e sulle gare per gas e trasporti locali»). Significa l’ottavo posto in classifica dopo, nell’ordine: il Regno Unito (voto 94, resta il Paese più liberalizzato); i Paesi Bassi, una rimontante Spagna e la Svezia (79 tutti e tre); quindi la Germania (locomotiva d’Europa qui senza primato, voto 76); poi il Portogallo (73), l’Austria (72) e il Belgio (70); infine la Finlandia e l’Irlanda (69 entrambe). Dietro di noi (come per Francia e Danimarca) ci sono soltanto il Lussemburgo (65) e la Grecia (58). Quel che è più inquietante è che in alcuni settori (commercio) ci sono forti pressioni a fare marcia indietro. E Governo e Parlamento sembrano disposti a soggiacere a tali pressioni.

In questo contesto, cosa può fare, per la crescita, il labirintico piano Juncker per stimolare oltre 300 miliardi di investimenti, mettendone sul piatto 21? A prescindere – avrebbe detto Totò – mi faccia il piacere, Signor Presidente della Commissione europea: siamo uomini, non caporali! Quindi non ci prenda in giro.