Il Pil italiano calerà dello 0,5% a fine anno, per poi crescere dello 0,5% nel 2015 e dell’1,1% nel 2016. È quanto emerge dal nuovo rapporto del Centro studi di Confindustria (Csc), secondo cui anche il rapporto deficit/Pil migliorerà. Se nel 2014 è pari al 3%, nel 2015 sarà del 2,7% e nel 2016 del 2,5%. Ne abbiamo parlato con Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università di Milano-Bicocca.
Perché Confindustria, che di solito è piuttosto prudente, improvvisamente è diventata ottimista?
Si tratta di un ottimismo relativo. Davanti ai dati per il 2015 c’è il segno più, ma di fatto la situazione attuale non cambia certo radicalmente. Passare dal -0,2% di quest’anno al +0,2% del primo trimestre 2015 non è certo una rivoluzione. Alla luce delle differenze tra la nostra economia e quelle europee, avremmo bisogno di una crescita ben superiore.
Di che cosa avrebbe bisogno il nostro Paese?
L’Italia avrebbe bisogno di una crescita superiore almeno all’1,5%. Anche con i valori “ottimistici” di Confindustria, finisce il lungo periodo dei “segni meno”, ma di fatto non c’è un cambio netto di condizione economica. Nel momento in cui il vantaggio inaspettato del crollo del prezzo del petrolio dovesse venire meno, resterà da vedere se la crescita continuerà.
Di fatto però siamo di fronte a un’inversione di tendenza …
È un passaggio da valori negativi a valori positivi estremamente limitato, ma dovuto essenzialmente a cause esterne come appunto il crollo del prezzo del petrolio. Il Pil con il segno positivo non si era più visto dopo le manovre di finanza pubblica di Tremonti/Monti, ma le cifre sono microscopiche e sembrano tutte dovute a fattori che non hanno a che fare direttamente con l’Italia.
Alla lunga il petrolio al ribasso può avere anche conseguenze negative?
Gli effetti sia di breve, sia di lungo periodo del contro-shock petrolifero sono comunque positivi. Lo abbiamo sperimentato a metà degli anni ’80, un periodo in cui l’economia italiana andava bene. I paesi produttori di petrolio chiaramente compreranno meno beni italiani, ma queste economie sul totale dei paesi in crescita pesano comunque abbastanza poco.
Il Centro studi di Confindustria mette anche in evidenza che il deficit italiano calerà. È un endorsement a Renzi?
Non escludo che Confindustria possa essere animata anche da motivazioni politiche, ma la vera questione è un’altra. Dal 2011 l’Italia ha avviato una serie di manovre lacrime e sangue promettendo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Abbiamo aumentato le tasse in modo inverosimile, abbiamo ucciso la crescita e i consumi delle famiglie, abbiamo impoverito il Paese, ma il deficit è tuttora al 3% del Pil, ci rimarrà anche negli anni prossimi e continueremo ad avere una crescita economica da prefisso telefonico. Nel frattempo il settore pubblico resta sostanzialmente lo stesso.
I problemi della Pubblica amministrazione sono stati risolti?
No. L’Italia ha un settore pubblico che è impresentabile secondo standard europei e una spesa pubblica insostenibile, eppure nessuno pensa a intervenire. È la conferma del fatto che il nostro governo non ha l’intenzione di riformare assolutamente nulla. È da questo punto di vista che non abbiamo i requisiti per fare parte dell’Unione europea. Il rapporto tra quanto costa e quanto produce il settore pubblico dimostra che l’Italia non è degna di rimanere in Europa.
Eppure l’Italia è uno dei pochi paesi a rispettare i parametri di Maastricht…
Limitarsi a rispettare il parametro del 3% dimostra che nella sostanza vogliamo tenerci le cose come stanno. Per l’Europa è sufficiente che la nostra finanza pubblica non sia disastrosa, ma che il nostro settore pubblico sia efficiente dovrebbe essere un interesse degli italiani e non di Bruxelles. Eppure a nessuno sembra che ciò interessi.
(Pietro Vernizzi)