Tutto bene. Con riserva. I mercati azionari hanno assorbito con entusiasmo il messaggio della Federal Reserve: i tassi americani saliranno nel 2015 perché, a fronte del miglioramento ormai evidente dell’economia Usa, non si può più giustificare la pioggia di denaro a tassi bassi. Ma niente paura: Janet Yellen procederà con pazienza, non prima di maggio-giugno. E terrà conto del quadro macroeconomico, ovvero, tra l’altro, dell’impatto che la crescita del costo del denaro potrebbe avere sul resto dell’economia globale, alle prese con problemi più o meno gravi: la ripresa Usa durerebbe ben poco se venisse accompagnata da un tracollo del Sud America e del Far East, entrambi indebitati in dollari. 



Tutto bene. Vladimir Putin patisce il colpo inferto all’economia dal calo del greggio e dall’embargo. All’apparenza lo zar ostenta sicurezza: il greggio, dice, potrà scivolare fino a 40 dollari, ma non ci piegheremo. E l’embargo costa all’Europa anche più che alla Russia. Ma, una volta lanciati gli appelli all’orgoglio della Patria ferita e messa a punto una rete di sicurezza per il rublo, l’ex ufficiale del Kgb offre il calumet della pace in Ucraina: tutto è salvo, compreso l’onore. 



Stessa musica a Berlino. Niente sconti alle cicale del Sud, suona il disco tedesco. A partire dalla Grecia, la più incallita tra i debitori (che nella lingua di Goethe equivale a peccatori). Ma la regola, a sorpresa, viene infranta dal Bundestag: Atene merita un anticipo, in attesa che venga raggiunto l’ultimo accordo con Bruxelles. In apparenza “perché la Grecia ha fatto grandi passi in avanti”, come sottolinea Wolfgang Schaeuble in versione buonista. In realtà, perché Berlino, come Parigi e Bruxelles, ha abbandonato la neutralità di facciata: tutto è lecito pur di sbarrare la strada a Syriza, il movimento ellenico che vuol ridiscutere il debito greco. 



La ripresa delle Borse festeggia l’azione dei “poteri forti”, a Est come a Ovest. Ad avvertirci che i pericoli sono ancora in agguato, è arrivata ieri mattina la notizia che la Banca centrale svizzera adotterà a partire da gennaio tassi di interesse negativi. Ovvero, chi intende dotarsi di franchi per effettuare investimenti in terra elvetica, invece di ricevere un premio, dovrà pagare un prezzo per il parcheggio. 

È una sorpresa che ha il valore di una conferma: Berna da anni si difende con ogni mezzo dalla corsa dei capitali verso i forzieri di Zurigo e Ginevra, considerato ancor oggi il porto sicuro per eccellenza dei capitali. Una corsa che potrebbe mettere a serio rischio la competitività dell’economia elvetica e far salire alle stelle i valori del mercato immobiliare. Di qui la decisione di scoraggiare l’afflusso di nuovi quattrini e la difesa, a ogni costo, del rapporto di cambio a 1,20 nei confronti dell’euro. Alla faccia delle iniziative delle autorità fiscali europee per scoraggiare l’esodo verso quello che fu il paradiso del segreto bancario. Com’è possibile, c’è da chiedersi, che la sfiducia regni ancora sovrana, soprattutto nel Vecchio Continente, dopo sette anni di crisi, in cui si è perduto tra il 20% e il 30% della ricchezza?

La corsa verso il franco è solo la punta dell’iceberg della scarsa fiducia dei mercati sulla forza della ripresa in atto. Nel corso delle ultime settimane il costo del denaro è sceso un po’ ovunque, a conferma che la guerra contro la deflazione è tutt’altro che vinta. Anzi, a vincere per ora è l’avversione al rischio, figlia dell’inflazione in caduta libera. Una situazione bizzarra, quasi incomprensibile rispetto all’esperienza del passato. 

Le Borse, almeno finora, hanno stentato a prender atto della novità del tracollo delle quotazioni del greggio che, parola di Vladimir Putin, potrebbe scendere fino a 40-50 dollari al barile. In passato, shock petroliferi di queste dimensioni hanno provocato un immediato stimolo per l’attività manifatturiera e per i consumi delle famiglie. Stavolta, il fenomeno sembra più complesso.

Prendiamo il caso dell’Italia. Lo sconto sulla bolletta petrolifera sarà, nel 2015, attorno a 14 miliardi di euro, minore del passato perché nel frattempo il Pil italiano si è parzialmente affrancato dal greggio: nel 1995, per produrre un milione di prodotto occorrevano 65,8 dollari di consumi petroliferi, oggi ne bastano 39. Il guadagno, comunque, resta cospicuo anche se buona parte del beneficio si fermerà nelle casse dello Stato. In ogni caso, sottolinea il Centro studi Confindustria, proprio il taglio dei prezzi petroliferi assieme a una possibile svalutazione dell’euro consente di guardare al 2015 con una timida fiducia. 

Ma la ripresa dovrà fare i conti con vari fattori negativi, che dovranno essere rimossi al più presto, pena nuovi disagi e sofferenze. L’Italia, dal 2010, ha visto sfumare affari per 20 miliardi nel Medio Oriente, causa i risvolti drammatici seguiti alle primavere arabe. Ancor più pesante lo shock dell’embargo verso la Russia: sia in termini quantitativi (1,7 miliardi di export nei primi nove mesi dell’anno) che per gli effetti qualitativi. A patire più di tutti, infatti, è stato il settore agroalimentare, a tutto vantaggio della concorrenza: in questi giorni, nei ristoranti di Mosca, la Reggianina argentina ha sostituito il Parmigiano… 

Più che un intervento sui tassi o un’operazione di Quantitative easing (comunque necessaria), la ripresa dell’economia dell’Eurozona, Italia in testa, dipende da una ripresa dell’import/export, che richiede a sua volta una forte iniziativa internazionale. Tanto per rimettere assieme i cocci di un’economia che ha subito tanti, troppi shock.