Per tutta la settimana, e fino all’8 dicembre, la fiera di Milano ospiterà L’Artigiano in Fiera, appuntamento fisso dello shopping pre-natalizio, arrivato alla diciannovesima edizione. Oltre 3mila espositori proporranno più di 150mila prodotti, manifatture italiane ed estere, di tutti i tipi, tra cui mobili, complementi d’arredo, articoli di sartoria, design, prodotti alimentari e molto altro, a visitatori provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. «L’artigianato è un settore destinato a rimanere vitale per sempre, perché è parte integrante di un modo di vivere, non solo di produrre», ma che per superare la crisi attuale «ha bisogno di tutto il sistema economico nel suo complesso», dice a ilsussidiario.net Pietro Modiano.
Con il presidente di Sea ed ex dg di Intesa-San Paolo, fedele visitatore dell’Artigiano in Fiera, proseguiamo quindi il dibattito iniziato con gli interventi di Antonio Intiglietta e Giorgio Vittadini su questo appuntamento fieristico diventato ormani un momento vitale di un’economia metropolitana in trasformazione. La grande industria – quella che un tempo si esibiva nella Campionaria d’aprile – non è più protagonista. Negli ultimi vent’anni altri settori sono diventati leader nell’Azienda-Milano: la finanza, la moda, i media, la ricerca scientifica. L’Artigiano è una vetrina privilegiata per un’impresa piccola ma dinamica; per produzioni di qualità ma molto competitive.
Qual è il contributo reale che l’Azienda-Lombardia può attendersi dalle sue Pmi?
In Lombardia, come nel resto del Paese, ciò che rimane in piedi, dopo una secolare gelata sulla grande impresa, è solo la piccola e media impresa. Trent’anni fa, il 40% del Pil era fatto da grandi imprese, oggi questa cifra si è ridotta probabilmente a un quarto. Il che dice, da una parte, ovviamente, che la grande impresa in questo Paese non vive le migliori condizioni per svilupparsi, dall’altra però che è vero il contrario per le imprese minori. In Italia ci sono 4 milioni di imprese. È un record nei Paesi occidentali. Questo dice che ci sono buone condizioni per la loro prosperità, in particolare nel Nord d’Italia. Le medio-piccole e medie imprese costituiscono l’unica parte vitale della nostra economia, quella che, soprattutto con le esportazioni, ha sostenuto il Pil in questi anni.
Nel suo intervento contenuto nel volume della Fondazione per la Sussidiarietà, “Imprenditore: risorsa o problema?”, lei ha detto che “nel momento in cui si sono ridisegnate le regole della competizione globale, essere piccoli si è rivelato un grandissimo vantaggio”…
È stato così nella prima fase della globalizzazione. Chi ne ha goduto sono stati i piccoli che, limitati a un certo raggio d’azione dal punto di vista delle modalità di trasporto, di accesso ai mercati e di raccolta di informazioni, a un certo punto si sono trovati il mondo spalancato davanti, mentre questa possibilità era già stata acquisita dalle imprese di maggiori dimensioni. Quindi, in termini differenziali, in origine sono i piccoli che hanno goduto della globalizzazione.
Adesso, invece?
Ora la situazione è un po’ più difficile, perché le posizioni sono state in certa misura acquisite. Adesso il tema è mantenere queste imprese competitive sui mercati in cui tutti i protagonisti sono in campo, penso ai mercati in crescita. E questo probabilmente mette in difficoltà un modello basato solo su imprese minori.
Sappiamo che essere parte del Made in Italy è un vantaggio perché una certa sensibilità verso di esso si sta diffondendo…
Sì, senza trascurare il fatto che quando si parla di Made in Italy, il grosso delle esportazioni italiane sono ancora meccaniche. Il Made in Italy non è solo moda e design o beni di consumo evoluto. Non bisogna dimenticare che l’Italia è un grandissimo produttore di beni strumentali.
Quali sono a suo avviso i fattori di mantenimento del vantaggio competitivo del Made in Italy? Èimmaginabile una reindustrializzazione del Paese su più alti standard di processo e di prodotto?
Io credo che ci sia da essere preoccupati per un Paese dove ci sono solo cose piccole. La discussione è stata stucchevole sul fatto se la piccola e media impresa fosse o meno vitale. Il problema è che un Paese in cui c’è solo piccola e media impresa è un Paese che non gode di tutti quei circuiti d’interazione tra grandi, piccole e medie imprese, che in paesi più articolati ci sono. Un Paese solo di piccole imprese è un Paese più fragile, di quello, come ad esempio è la Germania, in cui ci sono, a fianco delle piccole, grandi imprese che stimolano iniziative d’indotto e commerciali che difficilmente i nostri piccoli imprenditori, in ordine sparso, riescono a ottenere. Tutto ciò che richiede un sistema economico nel suo complesso, vede gli italiani in condizione di difficoltà rispetto a potenze che possono contare su grandi produttori di strumenti, ad esempio infrastrutturali, o penso a chi fa i vagoni ferroviari, per non parlare degli aeroplani.
In tutto questo che ruolo vede per l’artigianato?
L’artigianato è un settore destinato a rimanere vitale per sempre perché è parte integrante di un modo di vivere, non solo di produrre. Non si può pensare che un Paese evoluto, in un mondo globale, possa vivere solo di questo.
Giorgio Vittadini ha detto che il grande valore dell’artigianato italiano dipende da un fatto culturale: un modo di usare la realtà senza ridurla a preconcetto o alla sua percezione empirica, ma come portatrice sempre di qualcosa di buono, di utile, di bello.
È vero, ma non so quanto anche i dati culturali siano permanenti. Dipendono anche dalle fasi della vita dei Paesi. Il problema è che la vitalità e la creatività del mondo dell’artigianato richiedono, per essere mantenute, un sistema economico e di relazioni che in questo momento rischia di essere minacciato. Io credo che se l’Italia è sopravvissuta a un congelamento delle sue possibilità di crescita, è per questo. Esiste un tessuto di interrelazioni non solo economiche, ma anche personali e territoriali, che ha consentito di sviluppare meccanismi di sopravvivenza, di solidarietà e flessibilità. Questo ha permesso di sopravvivere alla crisi, non so se sarà in grado di determinare un nuovo modello di crescita che garantisca una qualità di vita migliore a tutti.
Anche per ciò che riguarda creatività e innovazione?
Pensiamo a cosa stiamo imparando dagli Stati Uniti: i prodotti belli e innovativi non sono monopolio di realtà piccole, come era una volta, ma lo possono essere anche di realtà enormi. Pensiamo alla qualità e anche all’estetica dei prodotti dell’elettronica di consumo… Adesso anche le realtà piccole sono chiamate a dare qualità estrema su larga scala.
L’Europa è spazio naturale per Milano, per il suo progresso sia economico che civile. Oggi il legame fra Italia ed Europa è soggetto a forti tensioni sul piano economico e a un confronto politico-culturale acceso. Come può Milano facilitare la formazione di nuovi equilibri?
Il problema dell’Europa è il problema della Germania e dei rapporti che l’Europa del Sud, in particolare l’Italia, avrà con quel Paese. È il nostro partner decisivo dal punto di vista economico e degli scambi, ma per diversi motivi noi lo conosciamo pochissimo, rispetto ad esempio a Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Credo che tutti gli italiani sappiano dov’è Lione, ma in pochissimi sappiano dov’è Düsseldorf. Da Milano deve venire una capacità superiore di capire cosa avviene in quella parte di Europa che è vicina a noi, ma sembra così lontana.
Potremmo avere sorprese positive?
Sì, la Germania è un Paese che si è esercitato in un processo storico molto complicato di grande successo, grande coesione sociale e equilibrio ambientale. Un Paese da cui imparare e che non si esaurisce nelle politiche di austerità che esportano e peraltro non adottano.
Andrà all’Artigiano in Fiera?
Sono sempre andato, ci andrò di sicuro.
(Silvia Becciu)