Si chiude domani l’Artigiano in fiera, uno degli appuntamenti milanesi più attesi, non solo dai cittadini del capoluogo lombardo. Dieci giorni di esposizioni che anche quest’anno hanno attirato in fiera qualche milione di visitatori. Per scoprire il vero tesoro nascosto sotto questi numeri, ilsussidiario.net ha sentito il professor Giulio Sapelli.



L’Artigiano in Fiera ha raccolto — più che idealmente — l’eredità della storica Campionaria milanese assieme a molte altre rassegne specializzate, dal Salone del Mobile a quello del Ciclo-Motociclo, al BiMu. Qual è secondo lei il segreto del suo successo?

Nell’aver unito quella che è la fiera per operatori e la fiera per il grande pubblico. Le fiere ormai sono sempre più fiere specialistiche, per operatori. L’Artigiano in Fiera è senz’altro un momento d’incontro tra artigiani, anche di filiere diverse e complementari, ma soprattutto è diventata una grande manifestazione popolare di massa.



Anche dove la gente incontra un certo mondo del lavoro…

Sì, e che segna anche un elemento di comunità e di identità nazionale. Questo non va dimenticato. Mi ha sempre dato un po’ noia che il Made in Italy si identifichi per lo più con la moda, che tocca solo i ricchi. Invece c’è qualcosa di più umile e buono, popolare, che dice cos’è l’Italia.

Cosa?

L’artigianato, che è un Made in Italy veramente popolare che tocca dalla macchina utensile, alla stampante 3D, alle calze, ai presepini fatti nei vicoli di Napoli, a quelli fatti invece con la mollica di pane…; è una cosa straordinaria, che va dalle alte tecnologie all’uso dei materiali più tradizionali, all’alimentazione che è un buon Made in Italy perché tocca tutte le classi sociali (benché io sia contrarissimo che si faccia l’Expo sull’alimentazione perché non rappresenta adeguatamente l’Italia).



Come ha visto evolvere negli anni l’identità originale dell’Artigiano?

Mi pare che l’Artigiano in Fiera in questi 19 anni abbia acquistato una sua fisionomia sempre più precisa, sempre più attenta. Io la trovo una manifestazione molto bella perché nasce dalla frugalità, dalla semplicità, non dalla voglia di colpire. E riflette bene la cultura artigiana, quella che non eccede mai, che non è mai gradassa, che ha un giusto basso profilo.

E poi c’è il rapporto famiglia-impresa di cui parla nel suo ultimo libro “Elogio della piccola impresa”…

In questo lavoro contesto la tesi economica dominante secondo cui per capire la piccola impresa bisogna partire dall’economia. Secondo me, invece, per capire la piccola impresa bisogna partire dalla società naturale che è la famiglia. Se uno studia la piccola impresa, e soprattutto l’impresa artigiana (che è essenzialmente familiare), vede che si sviluppa, cresce e cambia a seconda di come si sviluppa, cresce e cambia la famiglia.

C’è chi dice che l’impresa artigiana corre troppi rischi per via delle sue dimensioni. Cosa ne pensa? 

Non è affatto vero. Pensiamo al grande boom delle imprese artigiane di servizio alla persona. Io sono convinto che il tema del domani sarà quello della purezza, come diceva Mary Douglas, grande antropologa inglese.

 

In che senso?

Il tema della purezza sta entrando in una nuova prospettiva di cura alla persona, dove vedo un ruolo per l’impresa artigiana nello specializzare infermieri, autisti, accompagnatori, che si occupano dell’invecchiamento perché questo non venga più nascosto. Oppure nell’alimentazione, dove una parte consistente dell’artigianato è fatto da imprese alimentari che si differenziano dalla produzione delle grandi multinazionali per il grado di purezza, pensiamo al biologico e a tutto il tema della tracciabilità.

 

Prima diceva del fatto che in fiera si incontrano artigiani di filiere diverse: ha un valore questo per lei?

L’artigianato riflette la trasformazione che c’è nella grande industria. L’impresa è sempre più un incrocio di industrie, meccanica, chimica, elettronica, dell’ICT (Information and Communication Technology). E questa è la forza dei nuovi artigiani, i makers che stanno reindustrializzando le città su piccoli lotti: hanno un sacco di abilità e di capacità che un tempo vedevi scorporate in 5-6 persone.

 

Giorgio Vittadini ha detto che l’anima dell’artigianato è in un fatto essenzialmente culturale: l’incontro tra un soggetto che non rinuncia ai suoi desideri e una realtà trattata come qualcosa che contiene sempre qualcosa di bello, buono, utile. Cosa ne pensa?

Penso che bisogna narrare. C’è una conoscenza che mette insieme la business-idea che è sogno, che è volontà, che è creazione, con l’esperienza realista del far quadrare i conti, del mettere criteri di efficacia ed efficienza. Come questi artigiani ci riescano, come queste imprese piccole affrontino il mercato non lo sa nessuno. Forse bisogna cominciare a raccontarlo, a descriverlo. Se vogliamo dare una continuità, dobbiamo cominciare a fare story-telling, a narrare queste cose.

 

Pietro Modiano sottolinea la grande vocazione imprenditoriale del nostro Paese ma dice che nella fase attuale della globalizzazione avere un sistema fatto per lo più di piccole imprese non è più un vantaggio, è d’accordo?

Il problema non è far crescere l’impresa che non vuole crescere, non c’è legge che possa farlo. Il punto è quello che c’è attorno all’impresa artigiana, il liquido amniotico, il quale è fatto anche di grandi imprese di cui l’impresa artigiana ha bisogno perché non potrà mai farsi da sola il proprio acciaio o la banda larga, o altri beni strumentali. Quindi, un sistema economico è bello e forte se è fatto di tante forme e dimensioni.

 

Però in molti dicono che se vogliono andare avanti sono costretti a cercare mercati internazionali e per farlo devono aumentare le dimensioni… 

Che per esportare ci vogliano le grandi dimensioni mi sembra una grande sciocchezza. Anzi, ci sono imprese piccolissime che fanno cose idiosincratiche… Io conosco un’impresa di Como che fa 100.000 cravatte all’anno, è piccolissima, ma vende in tutto il mondo.

 

Di cosa ha bisogno soprattutto una piccola impresa artigiana se vuole esportare?

Chi vuole esportare ha bisogno di banche che lo aiutino a esportare. Se sei in una dimensione nazionale puoi servirti di una banca di credito cooperativo o di una banca popolare. Se poi vuoi vendere in Svezia o in Egitto hai bisogno di una grande impresa finanziaria, oppure una piccola partecipazione in un grande fondo di investimento che ti assicuri le risorse finanziarie per aprire un piccolo showroom o un outlet a Dubai.

 

Che consiglio darebbe a un imprenditore artigiano che sta subendo la crisi?

Di essere anarchico, di seguire fino in fondo se stesso e la sua passione, e di fare le cose che gli altri non sanno fare.

 

La piccola impresa va anche difesa però…

In America negli anni Cinquanta fu fatto lo Small Business Act che mise per legge l’obbligo a dare il 30% degli appalti pubblici alle piccole imprese. In Italia, con il 95% di piccole imprese, la piccola impresa non è difesa. Non solo, c’è anche una Banca d’Italia ostile verso le banche popolari che sono, per loro natura, legate alle imprese artigiane.

Milano come piattaforma fieristica e come nodo strategico della rete di scambi “a valore aggiunto” (prodotti ma soprattutto conoscenze, informazioni di mercato, culture, idee). Cosa manca ancora a Milano per affermarsi come “inspirational city” mondiale?

Innanzitutto, bisognerebbe che gli amministratori locali pensassero che Milano non è solo il quadrilatero dei ricchi, ma è anche Inganni, Corvetto e le grandi periferie. Come può essere attrattiva se quando piove mezza Milano si allaga? E’ anche l’unica città che ha distrutto il suo centro storico coprendo i canali.

 

E’ davvero messa così male Milano?

Per certe cose, Milano è una città europea, perché è un gateway: è un punto di transito, ci sono le sedi delle multinazionali e soprattutto perché c’è l’alta finanza. Poi è senz’altro stata in grado di trasformare i lavoratori espulsi dalla grande industria in lavoratori autonomi. E ha sempre avuto una grande capacità di distendere le tensioni sociali perché è uno dei punti più ricchi d’Italia, in uno dei posti più ricchi al mondo: la Pianura Padana.

 

Un suggerimento per la prossima edizione dell’Artigiano in fiera?

Io ci farei qualcosa di culturale in più. Sono tanti e vengono da tutto il mondo: bisognerebbe approfittare per fare loro alzare la testa, per aiutarli a conoscere se stessi e elevare se stessi. L’artigianato non ha una metafisica, non è presente nell’immaginario culturale; nei romanzi e nelle fiabe non si parla di artigiani. Il mondo intellettuale, che fa poi l’opinione pubblica nel lungo periodo, considera l’artigianato come un cascame dell’economia. Invece meriterebbe un’area di consenso intellettuale più vasta. Attraverso delle iniziative culturali, l’Artigiano in fiera potrebbe contribuire a fare e creare una nuova ondata culturale di simpatia verso gli artigiani.

 

(Silvia Becciu)