Per l’Istat nel 2013 la produzione industriale in Italia ha chiuso con un -3%: dopo la ripresina di novembre, è tornata a scendere a fine anno. Secondo la Banca d’Italia, anche il sistema del credito continua a soffrire: in un anno i prestiti sono calati del 3,8% e c’è stata un’accelerazione dei crediti difficili. L’Ocse invece continua a segnalare “una variazione positiva in termini di slancio dell’attività economica nell’intera Eurozona e in Italia”. Per Oscar Giannino, giornalista economico, «per tentare di crescere un po’ più rapidamente dobbiamo concentrarci sul recupero di output potenziale. Dei 9.1 punti di Pil che abbiamo perso dal 2007, più del 50% sono dovuti proprio alla diminuzione reale dell’output potenziale. Vuol dire che sono stati smantellati siti produttivi, imprese; che ci sono disoccupati non reimpiegabili perché non ci sono più i tipi di impresa per cui hanno lavorato tutta la vita. E per il recupero di questo output potenziale il credito è fondamentale».



Sembrano dati contrastanti: come vanno letti?

In effetti, se guardiamo a questo tipo di indicatori, che di solito sono anticipatori del ciclo, l’Italia è oltre il 50%; non quanto la Germania, ma meglio della Francia. Il problema è quanto di quell’indice si tradurrà poi in un aumento reale del Pil. Da questo punto di vista, la forbice su cui c’è maggiore convergenza per il 2014, stante i ritmi degli ultimi due trimestri del 2013, rimane tra lo 0,6-0,7 %. Anche se il governo si ostina a dire che sarà oltre l’1%.



Sta dicendo che la ripresa è ancora lontana?

Uno 0,6-0,7% vuol dire una disoccupazione al 12,7-12,8, 12,9%. In termini di riacquisto di reddito disponibile e di occupazione non ci siamo, ci vuole un’accelerazione più forte. E una delle componenti più forti che hanno accresciuto la perdita di impresa e lavoro è il credit crunch che ha proporzioni tali e un meccanismo che lo determina che occorre mettere mano a una soluzione.

Che tipo di soluzione?

Personalmente sono tra quelli che, dalla fine del 2012, invano propongono la necessità di un intervento di sistema per sbloccare il capitale bancario che altrimenti sarebbe stato assorbito dal dover equilibrare la mole di sofferenze e tagli che sarebbe inevitabilmente aumentata. Cosa che puntualmente è avvenuta. Siamo attorno ai 160 miliardi di euro di sofferenze lorde e almeno a 300 miliardi se sommiamo gli incagli e tutte le partire di credito deteriorato. Questo blocca capitale di banche che già sono sottocapitalizzate. D’altro canto, dal 2012-2013, le banche hanno dovuto, tra virgolette, assecondare la necessità dello Stato di piazzare una quota crescente del debito pubblico. A quel punto, corte di capitale, di fronte a quei 400 miliardi di titoli pubblici in pancia, alle sofferenze che aumentavano, alle difficoltà di funding che fino a poco tempo fa erano fortissime, cosa potevano fare per avere un equilibrio economico stentato? Tagliare gli impieghi. A chi? A famiglie e imprese, ovviamente. Per fortuna l’altro ieri al Forex il governatore Visco ha ribadito la necessità di un intervento sistemico, anche se bisogna dargli atto che di questo era convinto da tempo. Il problema è che la politica non ci ha mai sentito da quell’orecchio.



Perché?

Nel 2012 la politica aveva pensato che una delle modalità per un intervento congruo era quella europea. In quel modo si potevano liberare 50, 60, 70 miliardi di euro da questa partita di sofferenze, almeno per la parte medio-piccola delle banche – non Unicredit e Intesa – quel terzo sistema bancario che sono le Bcc che sono finite progressivamente in condizioni patrimoniali sempre più deteriorate.

 

Cosa intende per modalità europea?

Si trattava cioè di chiedere fondi all’Esm come ha fatto la Spagna per gli attivi patrimoniali deteriorati delle banche per via della bolla immobiliare. Questo la politica italiana non ha voluto farlo.

 

Come mai?

Perché sarebbe stata una specie di vergogna che avrebbe messo in difficoltà davanti all’opinione pubblica italiana. Dovevamo continuare a dire che il nostro sistema bancario era il più sano d’Europa. Che era vero sotto tantissimi punti di vista, ma bisognava evitare che le sofferenze in crescita strangolassero l’economia reale.

 

Poi cos’è successo?

Nel 2013 c’era un’altra possibilità: mobilitare capitale pubblico a garanzia, utilizzando la Cassa Depositi e Prestiti in maniera alternativa a come invece è stata utilizzata. Cioè anziché utilizzare Cdp per fare una specie di Iri-bis, utilizzare a garanzia un po’ di decine di miliardi come base patrimoniale per un’operazione di bad bank per la parte medio bassa del sistema bancario.

 

Chi era contro quell’ipotesi?

L’obiezione non era tanto di Banca d’Italia ma della politica e del sistema bancario che su questo era diviso: è ovvio che soprattutto Intesa, ma anche Unicredit, hanno forza propria per regolarsi questa partita. Adesso Visco lo ha detto anche pubblicamente. Mi auguro solo che anche il sistema decisionale pubblico, che mi sembra così ingolfato da tanti guai, riesca a capire che questa è una priorità. Lo schema si è ripetuto anche di recente.

 

Quando?

Rimasi molto male quando 8 mesi fa Mediobanca avanzò la proposta di un ipotetico modello per un intervento di bad bank, anche in questo caso non per le grandi banche ma per le altre. La cosa cadde nel vuoto con un visibile fastidio da parte del sistema bancario e soprattutto delle politica. Invece questa rimane una componente fondamentale per accelerare la crescita nel breve nel nostro Paese. Il problema bancario va affrontato in maniera sistemica. Credere di affrontarlo semplicemente compiacendosi del fatto che Unicredit e Intesa possano regolare le proprie sofferenze come crediti di mercato e dire a tutti gli altri: se non ce la fate, fondetevi, è un’illusione perché non funzionerà. Significa che quella parte del sistema bancario continuerà a tagliare ancora tantissimo gli impieghi alle famiglie e alle imprese. In più, siccome stiamo parlando di una componente del sistema bancario che ha un rapporto fortissimo con le realtà territoriali e con la piccola e piccolissima impresa, ecco qua gli effetti di una crisi che ha una particolarità.

 

Quale?

Che dei 9,1 punti di Pil che abbiamo perso dal 2007, più del 50% sono dovuti alla diminuzione reale dell’output potenziale.

 

Cosa intende con questa formula?

Vuol dire che sono smantellamento di siti produttivi, imprese, sono deterioramento reale della capacità di occupazione del capitale umano. In altre parole significa che ci sono disoccupati che hanno skills non reimpiegabili perché non ci sono più i tipi di impresa per cui hanno lavorato tutta la vita. La politica dovrebbe capire che è questo che rallenta il nostro percorso di ripresa più di quello di altri paesi. Come la Spagna che, ad esempio, ha due settori in ginocchio – l’immobiliare, che faceva un quarto del Pil spagnolo e le banche -, ma il resto, no. Nel primo semestre 2013 in Italia abbiamo prodotto 379mila veicoli, in Spagna 1milione 100mila! Negli elettrodomestici bianchi in 12 anni abbiamo perso il 58%. Il 58%! Nell’edilizia siamo in ginocchio anche noi, pur non avendo avuto la bolla immobiliare come loro.

 

Cosa si può fare per recuperare quel gap?

Per tentare di crescere un po’ più rapidamente dobbiamo concentrarci proprio sul recupero di output potenziale. E per il recupero di output potenziale il credito è fondamentale. Mentre per la riforma fiscale si può aspettare – in realtà sarebbe da fare subito ma viste le procedure pubbliche italiane è inutile illudersi – un meccanismo di intervento capace di sbloccare il credito ha degli effetti di traduzione più rapidi e manda segnali all’economia reale: per questo bisognerebbe farlo. O recuperiamo il più rapidamente possibile quell’output potenziale oppure il nostro Pil reale crescerà meno degli altri. La Spagna ha più disoccupati di noi ma la sua ripresa viene prima ed è più forte della nostra.

 

Come mai?

Per quello che le dicevo prima. Non è che siamo peggio degli spagnoli, ma perché i meccanismi della crisi hanno morso in modo diverso: da loro è stata più profonda in alcuni settori ma molto meno negli altri. Noi invece abbiamo avuto una crisi che ha morso tantissimo alcuni settori, ma che mediamente ha distrutto capacità di produzione in maniera molto più diffusa.