Jean-Baptiste Colbert, chi era costui? Ad alcuni secoli di distanza dalla sua vita e dalle sue opere, il ministro delle Finanze (dell’Economia, si direbbe oggi) di Luigi XiV dovrebbe acquistare notorietà nell’Italia di oggi. Specialmente al termine di una settimana in cui l’avvitarsi della crisi dell’Electrolux e la nascita della FCA, in parte sulle ceneri delle Fabbrica italiana automobili Torino (Fiat), avrebbero dovuto dare una scossa per chiedersi se esiste e dove va la politica italiana dell’industria manifatturiera. Il nome di Colbert ha circolato per qualche anno quando, circa un decennio fa, in un discorso pronunciato a Pesaro l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze (Giulio Tremonti) lo evocò a proposito dell’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e delle implicazioni che ciò comporta in materia di applicazione dei principi di reciprocità e di non discriminazione (i due pilastri dell’Omc).



Colbert fu un uomo di Stato di multiformi attività. Da Segretario alla Marina potenziò la flotta, modernizzò i cantieri navali e aprì rotte sull’Atlantico per creare “Nouvelle France”, la prima colonia francese in quello che è oggi è il Canada. Accademico di Francia, fu anche uomo di lettere e urbanista; guidò il riassetto di molte città francesi e fondò l’Académie de France a Villa Medici a Roma. È ricordato, però, principalmente per il suo ruolo nell’economia: fautore dell’intervento pubblico, riorganizzò le autonomie locali e il sistema tributario (abrogando esenzioni e deduzioni); adottò una politica per attirare in Francia lavoratori stranieri con professionalità che mancavano nel Regno (per le banche, la finanza, l’industria nascente); mise, soprattutto, in atto una strategia mercantilista diretta a potenziare l’export e proteggere, con dazi e contingenti, le manifatture nazionali.



Un pianificatore o un liberista? Nel contesto del Seicento francese, deve, paradossalmente, essere considerato un liberizzatore a fronte della frammentazione di mercati locali regolati da interessi particolaristici, del pensiero “bullionista” ancora imperversante (favorevole alla più ampia circolazione di moneta nei confini del territorio nazionale e alla “cattura” di metalli preziosi) e del protezionismo pure più spinto (si pensi all’Atto di navigazione che vietava l’import di merci non trasportate su navi di Sua Maestà britannica) vigente sull’altra sponda della Manica. In breve, sempre nel contesto dell’epoca, un liberale nazionale favorevole a uno Stato decisamente regolatore e, quindi, anche ispettore. Il management di Invitalia Spa, e del nuovo poltronificio che dovrebbe nascere dalle sue costole per attirare capitali e tecnologia straniera nel nostro Paese, avrebbe molto da imparare da Colbert.



Come Faust, il Colbert economico aveva, però, due anime. Dato che era (si direbbe oggi) “un uomo del fare”, piuttosto che del teorizzare, non lasciò nessuno scritto organico; quindi, le sue anime vanno ricavate dai suoi “decreti” – ne firmava tanti! L’anima liberale-regolatoria (nel quadro della Francia del Seicento) traspare dal rigore delle misure contro la contraffazione e la corruzione (della Pubblica amministrazione e dei concessionari di esazione delle imposte). Quella nazionale-mercantilista dalla tariffa doganale e dagli incentivi (su base non discriminatoria, grande segno di modernità a quell’epoca) per l’industria francese.

Le due anime hanno dato origine a due filoni. In materia di politica industriale e commercio internazionale la divisione è netta. Un filone ha dato vita a una scuola di pensiero e azione nettamente protezionista e a favore di industrie decotte e carrozzoni per tenerle in vita (pur se solo vegetativa); in Italia iniziò a prendere piede già nel 1878 con la tariffa doganale Luzzatti, proseguì negli anni Trenta e riapparve negli anni Settanta con gemme quali la “legge Prodi” e la netta chiusura di gran parte dell’attuale opposizione alle liberalizzazioni conseguenti il sistema di cambio europeo. La seconda, invece, ha rappresentato il filone che ha scelto l’apertura dell’economia italiana al mercato internazionale e ha tenuto duro anche nella buia notte di quell’esperimento di “solidarietà nazionale” che ha portato a dilatazione dell’intervento e della spesa pubblica e progressive svalutazioni.

L’Italia, Paese definito di “tarda industrializzazione” nelle storie economiche dell’Europa, non ha parlato di “politica industriale”, ma ne ha fatta a partire dall’età giolittiana, intensificandola (e, in gran misura, razionalizzandola) durante il fascismo. Lo abbiamo ricordato su queste pagine il 23 settembre 2013. “Politica industriale” è stato uno dei temi principali di dibattito a partire dall’inizio degli anni Sessanta e, quindi, dall’inizio del centro-sinistra. In una prima lunga fase si è seguita quella che veniva chiamata “la politica dei settori”, ossia l’identificazione di settori che, tramite poli di sviluppo e interdipendenze, fossero in grado di trainare il resto dell’economia. Si è favorita l’industria di base (metallurgia, siderurgia, chimica), unitamente, sin troppo ovviamente, con la metalmeccanica. I risultati sono stati inferiori alle aspettative, in gran misura perché puntavamo su comparti i cui costi di produzione erano notevolmente inferiori ai nostri in paesi del vicino Mediterraneo.

Negli ultimi due decenni del XX secolo, l’accento è passato a una “politica dei fattori”, sgravi tributari e deroghe alla normativa generale sul lavoro, sia generalizzati che diretti a comparti o ad aree territoriali da promuovere o di cui alleviare il declino. La “politica dei fattori” è stata accompagnata da strumenti etichettati “incentivi” che celavano sussidi più o meno espliciti a questo o quel comparto da incoraggiare o di cui attenuare le difficoltà. La “politica dei fattori” è stata rivalutata recentemente in analisi retrospettive degli anni Ottanta, ma è stata gradualmente abbandonata in quanto molti dei suoi aspetti, e delle sue misure specifiche, non in linea con le regole europee in materia di concorrenza. Anche ove una lettura forzata della normativa europea ne rendesse possibile un rilancio, le difficoltà di bilancio pubblico non rendono pratica una “politica dei fattori”, e ancor meno una “politica dei settori”, analoghe a quelle del passato.

Come affrontare allora i nodi delle vertenze per industrie in difficoltà (non solo Electrolux, Alitalia, ma tante altre) e la probabile delocalizzazione di imprese della stazza della Fiat (amo ancora chiamarla così)? E, soprattutto, come rilanciare il manifatturiero in modo che l’Italia sia in grado di agganciarsi ai segni di ripresa mondiale?

Alcuni esponenti del Pd hanno parlato, proprio in questi giorni, di fiscal devaluation. Ciò vorrebbe dire compressione dei salari e dei consumi – dunque nuovi ostacoli sulla via della ripresa. Nell’assordante silenzio di altre istituzioni, il 23 gennaio l’assemblea del Cnel ha approvato all’unanimità il documento Per una Nuova Politica Industriale – il testo integrale è sul sito dell’organo – elaborato dopo discussioni e audizioni con le parti sociali e con proposte incisive in materia di governance, strumenti, azioni di sistema a livello nazionale, azioni di supporto in materia di infrastrutture, logistica, investimenti immateriali, capitale sociale e agenzie di sostegno.

Il fantasma di Colbert non vagava per Villa Lubin (sede del Cnel), ma c’erano tra i suoi nipoti quelli della scuola che ha scelto competitività e apertura al resto del mondo.