L’Europa? Per George Soros resta una “Debt Prison” per i paesi periferici. È questa l’opinione sostenuta dal finanziere più famoso del mondo (con l’eccezione di Warren Buffett) davanti alla platea della London School of Economics. “Si può definire l’attuale situazione dell’Unione – ha detto – una sorta di prigione da cui i paesi debitori non possono evadere”. “Certo, la crisi finanziaria è finita – ha aggiunto – nel senso che la sopravvivenza dell’euro non è più in questione. Ma, nel corso della lunga crisi, sono venute a mancare le ragioni di fondo dell’Unione monetaria”. A complicare la situazione è stata anche l’interruzione del meccanismo di trasmissione dello stimolo monetario che fa pervenire il credito alle piccole e medie imprese. Un meccanismo difficile da far ripartire, dal momento che sarebbe necessario poter contare su investitori che siano in grado di prendersi l’equity risk indispensabile per ricapitalizzare le banche. In assenza di ciò, il trend della deflazione continuerà.
In assenza di questi soggetti, nonostante si sia ridotta la forbice tra i rendimenti dei titoli di Stato, resta molto forte la divergenza tra il costo di finanziamento delle aziende dei vari paesi. La conseguenza è l’elevato rischio di una stagnazione che potrebbe perdurare per molti anni, con una Germania che avanza su un binario e l’Italia che arretra su un altro, anche se meno di prima. A ciò si aggiunga il fatto che alcuni paesi del Vecchio continente emettono debito in una valuta che non stampano, rimanendo dunque vittima di una grande instabilità, similmente a quanto accadeva ai paesi emergenti degli anni ‘80-‘90.
Così parlò George Soros il 13 marzo scorso, meno di due settimane fa: negli stessi giorni, abbiamo saputo dopo, i grandi investitori internazionali, capitanati da BlackRock, stavano effettuando massicci acquisti di titoli Mps. Intanto, dalle comunicazioni alla Consob emergeva che il colosso del risparmio Usa aveva acquistato poco più del 5% di Unicredit, dopo aver acquisito una quota analoga in Banca Intesa: i soggetti in grado di prendersi sulle spalle “l’equity risk” come auspicato da Soros erano comparsi sulla scena del credito di casa nostra. Niente a che vedere con la febbre speculativa della stagione dei furbetti, quando la finanza si era sfidata per il controllo delle banche italiane con intenti speculativi. Stavolta a muoversi sono grandi investitori con una visione a lungo termine, decisi a partecipare al risanamento, né breve né facile, di Monte Paschi assieme a una Fondazione opportunamente dimagrita e costretta, forse suo malgrado, a rinunciare ad appetiti speculativi.
Non è più tempo di muro contro gli stranieri, come ai tempi delle battaglie su Banca Antonveneta o della resistibile scalata di Giampiero Fiorani. Adesso Giovanni Bazoli, padre nobile di Banca Intesa, non solo benedice lo sbarco di BlackRock, ma fa sapere che le Fondazioni “farebbero volentieri, seppur gradualmente, un passo indietro dalle banche a vantaggio degli investitori istituzionali”. Nel frattempo già si respira aria nuova: Unicredit fa pulizie di partite dubbie, Banca Intesa si prepara ad annunciare una grande semplificazione organizzativa (una gigantesca spending review…) e la fine della banca di sistema.
Nel frattempo, in quel di Bruxelles, il commissario Michel Barnier sta rifinendo il provvedimento su Solvency 2, ovvero i nuovi criteri di solvibilità previsti per le assicurazioni. Dietro questa materia tecnica si cela una novità importante per le piccole e medie imprese di casa nostra: le nuove regole permetteranno alle grandi compagnie (tra i più importanti investitori istituzionali) di detenere tra le riserve più titoli strutturati (vedi Asset backed security) composti da mutui ma anche di prestiti alle imprese. Accanto alle bad bank, destinate alle partite a rischio, si profila un mercato più liquido e più internazionale per gli impieghi nelle imprese che, per dimensioni, non possono bussare al mercato dei capitali con emissioni obbligazionarie dedicate.
Finora lo sviluppo di questi strumenti, assai usati negli Stati Uniti, è stato modesto in Europa dopo la grande crisi, anche per i problemi di liquidità delle banche alle prese con la rivoluzione dell’Unione bancaria. Oggi Mario Draghi non fa mistero di volere rivitalizzare il settore degli Abs per accelerare l’integrazione del debt financing, riducendo così la forbice tra le imprese, soprattutto piccole e medie, italiane e del Nord Europa. “L’arma segreta” del presidente della Bce sta negli “strumenti innovativi” per gestire la politica monetaria e contrastare la deflazione.
L’obiettivo è di poter dar vita, come in Usa e in Giappone, a un quantitative easing. Gli acquisti della Bce, secondo il piano di Draghi, non si concentreranno sui titoli di Stato (anche perché lo statuto della banca centrale prevede vincoli severi in materia) bensì, come avvenuto a Washington, proprio su Abs e titoli societari, obbligazioni e perfino azioni. Un autorevole economista su Vox.eu suggerisce anche l’acquisto di T-bond Usa per indebolire il dollaro e favorire la liquidità dei mercati internazionali. Difficile che Francoforte possa spingersi tanto in là, ma non è affatto escluso che l’Europa abbia finalmente imboccato la strada giusta per sconfiggere deflazione e stagnazione, ovvero un futuro fatto di disoccupazione, come teme George Soros. Ma ci starà la Germania?
Finora era lecito penare di no, vista la chiusura della Bundesbank e la rigidità che ha accompagnato il varo dell’Unione bancaria. Anzi, Berlino ha in pratica dettato tempi e modi di una politica monetaria restrittiva: il calo della liquidità, conseguenza inevitabile della restituzione alla Bce dei prestiti Ltro da parte delle banche, ha avuto l’effetto di un aumento dei tassi nell’ordine del 2%, secondo autorevoli osservatori come l’ufficio studi di Julius Baer. Ma, a sorpresa, il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha affermato che “un quantitative easing non è fuori discussione”.
Parole dette due giorni prima delle elezioni municipali francesi, ma rese note due giorni dopo il trionfo di Marine Le Pen. La sensazione è che Berlino, di fronte al bivio di Soros (“è la Germania che deve decidere se stare dentro o fuori l’euro”), pur con tutti i dubbi, la prudenza e lo scetticismo sulle virtù di Spagna, Portogallo e, soprattutto, Italia, abbia deciso che, anche di fronte ai rischi della partita ucraina, non è il caso di buttare a mare l’Unione europea. Il cammino sarà lungo e contrastato. Ma, forse, Soros si dovrà ricredere.