Nel discorso pronunciato da Matteo Renzi per la fiducia al Senato c’è un passaggio forte sul credito: la lotta al credit crunch è il secondo elemento messo all’ordine del giorno nel programma di Governo. Quella delle piccole e medie imprese che non riescono ad accedere al credito è nelle parole di Renzi “l’unica reale, importante e fondamentale questione che abbiamo sul tappeto”, da affrontare mediante “la costituzione e il sostegno di fondi di garanzia, anche attraverso un rinnovato utilizzo della Cassa depositi e prestiti”. In pratica, che cosa intende proporre il nuovo Governo per aiutare le Pmi ad accedere al credito?



Il Governo Renzi eredita una lunga serie di provvedimenti approvati sotto i Governi Monti e Letta, molti dei quali sono ancora da attuare, ad esempio, le misure approvate nella Legge di stabilità sul potenziamento e l’allargamento del campo d’azione del Fondo centrale di garanzia per le Pmi. Inoltre, la Cassa depositi e prestiti potrà acquistare titoli emessi nell’ambito di cartolarizzazioni di crediti verso Pmi, applicando la garanzia dello Stato con eventuali perdite coperte dal Fondo centrale.



Nessuna novità, allora? Sarebbe strano, non si spiegherebbe una dichiarazione così forte di guerra al credit crunch nel programma di Governo. Forse tra le opzioni allo studio c’è un nuovo maxi-fondo di garanzia con una potenza di fuoco (in termini di credito sostenuto) pari ad almeno otto volte l’attuale Fondo Pmi. Se ne si discute dal giugno dell’anno scorso. L’idea viene dai nostri maggiori gruppi bancari in collaborazione con le istituzioni bancarie dell’Unione europea, la Bei e il Fei. Luigi Abete, presidente di Bnl, l’ha rilanciata al recente convegno Assiom-Forex.

Questo Fondo Pmi 2.0 dovrebbe coprire col suo ombrello tutto lo stock di impieghi di importo unitario fino a 2 milioni e mezzo (uno stock di 180 miliardi). La garanzia sarebbe di tipo proporzionale (in media del 60%), con copertura di ultima istanza dello Stato, quindi senza un tetto massimo (cap) all’importo assoluto dei risarcimenti. Il nuovo Fondo si appoggerebbe su una complessa struttura di cartolarizzazione del rischio in tranche. La copertura delle tranche esposte alle prime perdite farebbe leva su fondi strutturali di Stato e Regioni, nonché fondi di programmi comunitari per le Pmi. Lo Stato si assumerebbe pro quota un rischio teoricamente illimitato, ma nella pratica coperto da fondi dedicati (ovviamente, se le stime statistiche degli arranger reggono la prova dei default reali).



I big player del credito rivendicano la necessità di questo grande ombrello protettivo perché il mercato dei prestiti alle Pmi oggi non è sostenibile senza aiuti di Stato. Non è sostenibile questo mercato dei prestiti alle Pmi, gravato da sofferenze ai massimi storici, e in crescita, con questa rete distributiva, questi costi di selezione e monitoraggio e, soprattutto, questa domanda costituita da un esercito sterminato di imprese minuscole, esposte alle correnti di business striminziti, incapaci di darsi strategie.

Le banche argomentano così: allo scoppio della crisi ci avete chiesto di dar ossigeno all’economia reale e l’abbiamo fatto, con le moratorie. Ma adesso basta: lo Stato deve riprendersi una fetta del rischio che ci ha caricato sulle spalle; deve condividere con noi l’alea di una recessione che potrebbe durare ancora a lungo; deve scommettere sul superamento della crisi. Un Fondo Pmi 2.0 darebbe sostegno al rilancio del credito (non c’è dubbio), ma ancor prima un sollievo ai bilanci delle banche, pressati dalle rettifiche su posizioni in via di deterioramento.

Che cosa farà il Governo Renzi? Metterà la firma dello Stato italiano su questa fideiussione che le banche chiedono di sottoscrivere? La posta è molto alta. In passato, le garanzie pubbliche illimitate hanno creato dei giganteschi accumulatori di rischio (pensiamo a Fannie Mae e Freddie Mac negli Stati Uniti). Alla prova della crisi, gli argini progettati dagli ingegneri finanziari hanno ceduto. Dubito che la Ragioneria dello Stato accetti quest’alea.

La vittoria contro il credit crunch non si ottiene con le guerre lampo, con armi che possono esplodere fra le mani. Non esistono rimedi universali. Servirà molto tempo e lavoro per rimettere il sistema bancario in condizione di finanziare un’economia risanata

C’è prima di tutto da risolvere una massa imponente di situazioni deteriorate. L’ha detto bene Luigi Zingales: tutti parlano di creare una bad bank di sistema, ma non tutte le bad bank sono uguali. C’è la discarica di posizioni in perdita a spese della fiscalità generale. C’è la catena di montaggio delle azioni di recupero coattivo. C’è infine l’agenzia specializzata che aiuta banche, garanti e debitori a coordinarsi per risolvere le crisi in maniera equa e non troppo costosa, con una missione di interesse pubblico, quella di salvare valore d’impresa e posti di lavoro. Il nuovo Governo dovrebbe far nascere la bad bank del terzo tipo, un’agenzia per la ristrutturazione del debito delle imprese.

Le banche devono poi recuperare margini per sviluppare i finanziamenti alle imprese vitali, magari con il supporto di nuovi strumenti, come le azioni e i bond delle medie imprese o le cartolarizzazioni di prestiti alle Pmi.

È un cammino lungo, ma occorre il coraggio di fare i primi passi, senza cercare scorciatoie pericolose.