Come volevasi dimostrare, l’inflazione Ue sotto le attese mette sotto pressione la Bce. O, almeno, formalmente dovrebbe essere così, perché sappiamo che le vie dell’Eurotower sono infinite e quasi sempre divergenti dalle dinamiche reali. Ma partiamo dai numeri, freddi quanto chiarificatori. Il tasso di inflazione nell’eurozona si è attestato allo 0,5% a marzo, in calo rispetto allo 0,7% di febbraio e allo 0,6% previsto dagli economisti. Il dato è in linea con il rallentamento registrato a partire dallo scorso novembre quando era allo 0,9%. Solo un anno fa, il tasso di inflazione era all’1,7%. L’ulteriore rallentamento dell’inflazione a marzo nei paesi dell’Euro-18 è stato determinato dalla riduzione della crescita dei prezzi di alimentari, alcolici e a base di tabacco che sono cresciuti in media dell’1%, rispetto all’1,5% di febbraio. Nei servizi i prezzi sono aumentati dell’1,1% a fronte di un incremento dell’1,3% a febbraio, mentre i prezzi energetici sono calati del 2,1% meno di febbraio (-2,3%).



«I numeri hanno confermato le pressioni al ribasso sull’indice dei prezzi al consumo ma non sono una completa sorpresa visti i dati spagnoli e tedeschi sotto le attese di venerdì scorso e quelli italiani di oggi. La Bce sta monitorando attentamente la dinamica dei prezzi al consumo in quanto la bassa inflazione nel breve termine potrebbe portare a modificare anche le previsioni di medio periodo», ha commentato con Class-Cnbc Annalisa Piazza, strategist di Newedge. Insomma, finalmente la Bce deciderà di fare qualcosa dopodomani? Si darà vita a un qualche tipo di intervento sul mercato obbligazionario o si punterà su tassi negativi per cercare di riattivare il meccanismo grippato del credito e contrastare le spinte deflazioniste? Oppure non si farà nulla?



Sono in molti, tra gli analisti, a propendere per quest’ultima ipotesi, a meno che non si registri un’impennata sull’euro/dollaro che porti il cross degli attuali circa 1,38 a toccare per assestarsi quota 1,40. Ma è un altro il dato che dovrebbe farvi preoccupare, cari lettori, parlando di Bce. Ed è un dato di cui nessun quotidiano o telegiornale vi darà conto, perché è la dimostrazione plastica di quale sia il livello di incompetenza che l’Eurotower riesce a mettere in campo. Si tratta, ovviamente, di banche. Le quali, come vi ho detto nell’articolo di ieri, stanno imbellettando i bilanci in vista della supervisione unica e degli stress test, svendendo sofferenze e incagli ai fondi Usa che comprano a meno della metà del valore facciale, postando perdite e writedowns ed eliminando partecipazioni azionarie che non risultano più strategiche in questo contesto di crisi. Restano fissi, invece, i portafogli di debito sovrano, il quale risulta un affarone grazie allo spread basso e al conseguente buon prezzo: insomma, sui mercati c’è la silenziosa garanzia da parte di qualcuno che i differenziali resteranno in sonno.



Sicuri di questo? Io no, perché la situazione cinese sta deteriorandosi ogni giorno di più e già alcuni analisti di grandi banche d’affari mettono in guardia da una seconda ondata di “taper tantrum”, ovvero la reazione dei mercati alla politica della Fed di ritiro delle politiche di stimolo che nel suo primo palesarsi innescò la crisi dei mercati emergenti. Ma di questo parleremo in settimana, oggi voglio parlarvi di banche e del fatto che in vista degli stress test queste stanno ammassando capitale a più non posso, levando quindi ulteriore finanziamento vitale all’economia reale dell’eurozona. Non lo dico io – che d’altronde lo affermo da mesi – ma uno studio elaborato dall’azienda di consulting EY, il quale predice che i prestiti nell’Ue saliranno soltanto dello 0,5% nel 2014, in crollo dalla stima iniziale che parlava di un +1,6%.

Motivo? Proprio il timore degli stress test che valuteranno lo stato di salute di 128 tra le principali istituzioni finanziarie, un’operazione fondamentale per Bce ed Eba, ma anche un esercizio che rischia di schiantare del tutto – e per molto tempo – la possibilità per le varie economie di agganciare i timidi segnali di ripresa presenti nel sistema. Per Andy Baldwin, capo dei servizi finanziari di EY, «dato l’alto tasso di dipendenza delle spese per i consumi e del finanziamento per le piccole e medie aziende dal sistema bancario nell’eurozona, l’Asset quality review potrebbe avere un impatto economico molto importante». E ancora, «la speranza è certamente quella che questa operazione permetta un sostegno maggiore delle banche a una crescita sostenuta, ma se ci sarà una contrazione del credito ampia, l’Asset quality review potrebbe tramutarsi in un colpo molto duro, magari non sufficiente a rigettare il continente in recessione, ma sicuramente in grado di prolungare e di molto la bassa crescita e la stagnazione».

Unite a questa prospettiva quella della deflazione e fate due conti sul futuro che ci attende se Mario Draghi deciderà di prendere ancora tempo. Per la EY, una contrazione del credito dello 0,4% o maggiore potrebbe indebolire fin da subito le prospettive di crescita europea per il prossimo anno, a oggi fissate all’1,8% dalle previsioni della Commissione europea. Nella sua previsione più pessimistica, EY avverte che in caso di contrazione ancora più severa del credito nell’eurozona, quel dato di crescita per il 2015 si potrebbe ridurre a un esangue +0,7%. Per Robert Cubbage, uno dei curatori del report, «gli effetti di breve termine di questa operazione da pulizie di primavera nei bilanci delle banche si stanno già facendo sentire a livello di erogazione del credito. È molto probabile che alcune banche adatteranno alla situazione il loro modello di business, fornendo meno credito diretto alle aziende in favore di una politica di advising verso le stesse riguardo l’accessibilità a una gamma di fonti di finanziamento differente e alternativo».

E questa ipotesi, almeno per EY, è tutt’altro che residuale, tanto che il già citato Baldwin sottolinea come i governi dovrebbero incoraggiare il prestito per consumi e investimenti da fonti non bancarie: «La possibilità di un ulteriore rallentamento nell’erogazione del credito verso l’economia reale rende sempre più importante che i governi europei stimolino la ricerca di finanziamento a lungo termine da fonti differenti dal sistema del credito tradizionale». Insomma, l’ampliamento del sistema bancario ombra come soluzione ai guai delle banche? Ci mancherebbe soltanto questa, in un’Europa che già poggia su fondamenta più che scricchiolanti.

A mio avviso, due sono le soluzioni: sospensione degli stress test ma con l’obbligo per le banche di erogare un quota percentuale fissa di credito – non derogabile, pena il pagamento di penali salate o addirittura sospensione dell’autorizzazione a operare sul mercato – alle piccole e medie imprese e alle famiglie. Oppure, avanti con gli stress test – fatti però come si deve, ovvero andando anche a vedere la voce “derivati” che si nasconde nei bilanci, soprattutto delle grandi banche – e poi un intervento della Bce al fine di ripulire in maniera seria e definitiva la piaga delle sofferenze, ridefinendo una volta per tutte e con chiarezza gli stessi concetti di non-performing loans e incagli, visto che anche in questo caso le banche italiane scontano un trattamento peggiore dai mercati vista la loro rigida regolamentazione e definizione al riguardo (in Spagna diciamo che sono più allegrotti e i risultati si sono visti chiaramente).

Che tipo di intervento? Una bad bank, limitata ma in grado di acquisire direttamente dagli istituti i crediti in sofferenza, liberando i bilanci e facendo fluire in maniera più diretta il credito, il quale in questo modo ritroverà il meccanismo di trasmissione verso l’economia reale e non verso la speculazione borsistica a breve o l’ampliamento di quel legame incestuoso tra banche e Stati nell’emissione e acquisizione di debito sovrano. O si fa così, ponendo come ha fatto la Bank of England rigide regole riguardo le quote di credito da erogare obbligatoriamente verso imprese e famiglie o questa crisi non finirà davvero più. Attendiamo con ansia le parole di Mario Draghi.

 

P.S.: I giapponesi, spaventati dalla svalutazione dello yen provocata dalla politica del governo guidato da Shinzo Abe, hanno iniziato a investire in oro. Tra il 2012 e il 2013 la domanda di lingotti ha avuto un vero boom, registrando una crescita del 225% in base ai dati raccolti dal report annuale del World Gold Council. Questo aumento rivela che i giapponesi, di fronte alla svalutazione della loro moneta (che nell’ultimo anno si è deprezzata del 30%), hanno cambiato il loro atteggiamento nei confronti dell’oro, tramutandosi da venditori netti ad acquirenti per la prima volta dal 2005. Occhio all’Abenomics, perché se va fuori giri la Cina, la mega-manovra di stimolo giapponese potrebbe tramutarsi in uno tsunami di guai.