Il giorno in cui la Cina annuncia che entro l’anno diventerà la prima economia del mondo (in termini di prodotto lordo), di qua e di là dall’Atlantico arrivano segnali deludenti sullo stato di salute delle principali economie occidentali. Cominciamo dagli Stati Uniti. Il primo trimestre dell’anno ha registrato una battuta d’arresto: il Pil è diminuito dello 0,1%, un’inezia se vogliamo, ma comunque colpisce il segno meno perché non accadeva dall’inizio del 2011. Ha avuto un’influenza determinante il freddo eccezionale che ha fermato il settore delle costruzioni. Tuttavia preoccupa gli analisti l’andamento delle esportazioni contagiato dal rallentamento cinese e, soprattutto, la caduta negli investimenti, anche escludendo quelli nell’edilizia.



Troppo presto per parlare di un’inversione di tendenza, anzi tutto fa pensare che non ci sarà nessuna svolta negativa, perché i fondamentali sono solidi, però è evidente che la locomotiva americana, dopo aver tirato, sbuffa. Secondo alcuni, come Stephen Roach già guru di Morgan Stanley e oggi professore a Yale, manca dalla scena il Grande Consumatore americano, o meglio s’affaccia di tanto in tanto e poi si ritrae dietro le quinte. Lo smaltimento dei debiti non è ancora completato e il mercato immobiliare, termometro fondamentale dell’economia, sta meglio, ma non è guarito. Dunque, anche le spinte fortemente positive dal lato dell’offerta (l’innovazione o la rivoluzione energetica), non trovano la domanda per riportare stabilmente l’economia oltre la soglia salutare del 3%.



Un dato importante che la Federal Reserve tiene sempre d’occhio riguarda l’andamento del costo del lavoro: il totale dei compensi salariali è cresciuto soltanto dello 0,2%, con un andamento altalenante, ma nell’insieme in discesa. Non ci sono spinte inflazionistiche dal lato delle retribuzioni, e ciò è positivo, ma i redditi dei lavoratori e i consumi non aumentano come dovrebbero.

Il Federal Reserve open market committee, il comitato della banca centrale che decide sulla politica monetaria, ha concluso ieri la sua due giorni di analisi dei dati e di discussione e ha confermato le scelte fatte negli ultimi mesi, cioè una lenta riduzione negli acquisti di titoli (altri 10 miliardi che fanno scendere l’ammontare a 45 miliardi di dollari al mese), ma nessuna vera stretta. La ripresa economica è delicata come un bebè che non sa camminare e va sostenuto finché non stare ben saldo sulle sue gambe, ma stando attenti a non farlo ingrassare anzitempo. Un gioco di equilibri che dimostra quanto sia difficile l’arte del banchiere centrale.



Ne è convinto da sempre Mario Draghi, che ha atteso con ansia i dati sull’inflazione nell’area euro, prima di decidere se imbarcarsi in un’operazione all’americana, cioè nella versione europea del quantitative easing che passa prevalentemente per le banche visto che il mercato finanziario è bancocentrico nel vecchio continente. Aprile si chiude con un aumento dello 0,7%, leggermente superiore allo 0,5% di marzo, ma inferiore alle previsioni per l’anno in corso (+1%). Dunque, siamo in una situazione sospesa. La crescita sembra dar ragione a chi sostiene che la deflazione, lo spettro che si staglia all’orizzonte, non si è materializzata. Se è così, i prezzi potranno muoversi verso quella soglia di 1,6% (prevista dalla Bce per il 2016) che consente di smentire l’accusa di aver tradito il proprio mandato per eccesso di stabilità. L’obiettivo infatti è di mantenere l’inflazione sotto il 2%, non certo vicino a zero.

Il dato di aprile, insomma, non consente di superare le obiezioni della Bundesbank e mantiene la politica monetaria europea in lista d’attesa. Dalla prossima riunione del consiglio Bce, esattamente tra una settimana, non dovrebbero arrivare novità. Il che non è una notizia consolante, perché in Europa la ripresa è ancor più fiacca che in America e l’indice di fiducia economica è andato giù. Anche in questo caso pesano circostanze eccezionali come la crisi Ucraina, ma siccome le relazioni con la Russia non volgeranno per il meglio (certo non in tempi brevi), occorre trovare qualche stimolo per tirare su il morale delle famiglie e delle imprese.

La politica fiscale ha ovunque spazi limitati: l’Italia ha consumato i suoi con il bonus ai salari medio-bassi, la Francia ha ottenuto di non rispettare il tetto del disavanzo pubblico, ma adesso deve rientrare in carreggiata. Non esiste in concreto, nonostante gli auspici e gli annunci, una via d’uscita dalla trappola dell’austerità fiscale. Quindi non resta che la politica monetaria, con i suoi limiti (come gli stessi Stati Uniti dimostrano) e le sue incognite.

Draghi fa un passo avanti e uno indietro, promette e annuncia, ma per il momento non si muove. Usa la stessa tattica che nel 2012 è stata efficace per scongiurare il collasso dell’euro. Tuttavia questa volta le parole non bastano. L’ostacolo principale al rilancio dell’economia nell’Eurolandia è la stretta del credito. Le banche non allargheranno i cordoni della borsa finché non saranno completati gli stress test, ma anche dopo la maggior parte delle aziende creditizie si troverà davanti alla necessità o di aumentare o di consolidare il capitale. Dunque, privilegerà il risanamento dei conti, tratterrà una parte delle risorse per ragioni cautelative, non distribuirà i dividendi per sostenere i mezzi propri. Da dove verranno, allora, le risorse per gli investimenti? Ecco il dilemma al quale la Bce non può rispondere.

L’Ue non ha un governo che metta in campo incentivi per risvegliare gli animal spirits. E il Paese più forte, la Germania, rifiuta di fare da vero traino. Ci vorrebbe un colpo d’ala, uno scatto di immaginazione e di coraggio, per lanciare strumenti e canali di finanziamento all’economia reale diversi, alternativi alle banche. Perché i soldi ci sono, solo che vengono tenuti sotto il materasso. La ricchezza in Europa è enorme (come dimostrano le ricerche di Thomas Piketty che oggi tanto vanno di moda), però resta dormiente. È la manomorta in versione contemporanea. E nelle cancellerie, allarmate dalla crescita dei movimenti euroscettici e populisti, spira una mefitica aria da Ancien Régime.