Jeffrey Immelt, numero uno di General Electric, è andato in visita martedì all’Eliseo. Scopo dell’incontro: convincere il presidente François Hollande dei vantaggi dell’offerta del gruppo Usa per il business energia di Alstom rispetto a un’eventuale alleanza con la tedesca Siemens. Quasi in contemporanea Laurence Fink, presidente del colosso del risparmio BlackRock, si è incontrato, su sua richiesta, con Matteo Renzi. Una richiesta legittima visto che BlackRock conta investimenti per 59 miliardi in Piazza Affari e si accinge ad avere un ruolo di primo piano nella stagione degli aumenti di capitale delle banche italiane in vista dei test della Bce. È grazie a BlackRock e agli altri gestori Usa che gli istituti di casa nostra potranno affrontare con relativa tranquillità l’esame di Francoforte.



Sempre di martedì, invece, le cronache ci hanno informato di un incontro che crea qualche imbarazzo alla diplomazia di frau Angela Merkel: Gerhard Schroeder, ex premier tedesco, si è incontrato, tra abbracci e brindisi, con Vladimir Putin per festeggiare il compleanno del gasdotto russo-tedesco da lui presieduto. È vero che Schroeder oggi non ricopre incarichi politici, ma è comunque il padre politico dell’attuale ministro degli esteri di Berlino, Frank Steinmeier, già suo segretario. Nonostante le sanzioni imposte per la crisi ucraina, la Germania non intende certo rinunciare all’asse privilegiato con la Russia, principale fornitore di gas e grande mercato di sbocco per le auto tedesche.



Non esiste, come è ovvio, un fil rouge che lega questi appuntamenti nati per finalità e con obiettivi diversi. Ma quest’agenda di appuntamenti e colloqui riservati e non consente di fare alcune riflessioni. Innanzitutto, risulta sempre più appannata l’immagine della casa comune del business europeo, così come era stata concepita ai tempi della nascita dell’euro. Secondo il piano originario, infatti, l’integrazione tra i vecchi campioni nazionali avrebbe dovuto favorire la nascita di campioni europei in grado di competere a livello globale con i colossi Usa e asiatici. La moneta unica, combinata con la caduta delle barriere nel mercato interno, avrebbe dovuto consentire l’ascesa di gruppi di dimensioni continentali, così come era avvenuto negli Stati Uniti.



Le cose, in realtà, non sono andate proprio così, pur con la rilevante eccezione di Airbus. La frammentazione dei mercati nazionali ha rallentato il processo laddove, al contrario, la rapida evoluzione dell’economia globale, con il boom della Cina e di altri emergenti, ha cambiato rapidamente il terreno di gioco. Le grandi imprese, invece di contare su un mercato interno più grande, rappresentato dall’Europa, si sono trovate a competere in un campo di gioco grande quanto il mondo, che richiede muscoli finanziari e capacità di governo ben più complesse. In sintesi, solo i colossi Usa e, in minor misura, tedeschi e giapponesi (e presto anche i cinesi o gli indiani) possono competere a livello globale in un ampio ventaglio di business come ai tempi delle vecchie economie nazionali. Gli altri, vedi Francia o Italia, non hanno spalle abbastanza robuste per reggere conglomerate in grado di spaziare in tanti business, come ai vecchi tempo.

Di qui la necessità di sviluppare joint-ventures globali per avere un ruolo in campi che richiedono forti investimenti, dall’auto alle tlc passando per l’energia. Si può ancora esercitare una leadership globale in settori che richiedono meno intensità di capitali o di know-how, vedi la moda o il lusso ove sventola il tricolore transalpino o, in minor misura, quello nostrano. Ma, oltre una certa soglia, è necessario disporre di un grande partner internazionale. E non è affatto detto che debba essere europeo. Anzi, vista la piega presa dal Vecchio Continente dallo scoppio della crisi greca in poi non mancano certo i motivi per guardare oltre ai confini dell’area euro, afflitta da una pletora di regole, da meccanismi anticoncorrenziali e da atteggiamenti difensivi piuttosto che di apertura a nuovi business.

Il risultato è che, tanto per fare un esempio, la Fiat non ha trovato a livello europeo partner industriali con cui condividere una strategia di uscita dalla crisi o solidarietà a livello Ue per affrontare investimenti comuni. Per trovare un alleato Sergio Marchionne ha dovuto guardare agli Usa, mentre dalla Germania ha ricevuto un secco no per Opel. Allo stesso modo, le banche nostrane guardano oggi a Kkr o ad altri private Usa per sviluppare una bad bank di sistema. Lo stesso sta per capitare alla Francia che, molto a malincuore, sta prendendo atto che non è più tempo di grandeur economica.

Si tratta di un processo faticoso e doloroso, che impone una riduzione del potere di intervento degli Stati nell’economia e una brusca caduta dell’influenza sui sindacati o di altri soggetti economici. Ma più presto si agisce, meglio è: guai a illudersi che il tempo si possa fermare. Al contrario, è il momento di prender atto che l’euro non è stato quel formidabile fattore di unificazione sognato dai padri dell’euro, che pensavano a un mercato dei capitali, del lavoro e dell’attività economica unito da un solo alfabeto economico.

La storia ha preso un’altra piega. E non ha senso accusare la Germania di aver scelto il confronto diretto con Cina o Russia piuttosto che privilegiare la salute della finanza pubblica della Grecia. L’euro, insomma, non è stato il collante comune di economie troppo diverse o, come non poteva essere, uno scudo contro la globalizzazione. Ma non per questo è stato inutile o dannoso: i mali di economie mature, con una pletora di leggi e di lacci e lacciuoli a danno dello sviluppo, sono ben altri.