Prosegue l’effetto Renzi sul mercato, dopo il trionfo del Pd alle europee e alle amministrative di domenica scorsa. Lo spread Btp/Bund ieri si è attestato a 165 punti base con un tasso al 2,97%, sotto la soglia psicologica del 3%, dopo il buon esito dell’asta Bot. Martedì il Tesoro ha collocato con successo complessivamente 4 miliardi di euro in Ctz e Btpei, ieri ha collocato tutti i 6,5 miliardi di euro di Bot a sei mesi offerti a fronte di una richiesta pari a 11,021 miliardi. Il rendimento è sceso allo 0,492% dallo 0,594% dell’asta di fine aprile, con una domanda pari a 1,7 volte l’offerta. L’asta prelude a quella più significativa prevista per oggi, quando il Tesoro metterà a disposizione degli investitori tra 6 e 7,5 miliardi in riaperture di Btp a 5 e 10 anni, rispettivamente la quinta e la nona tranche dei titoli 1 maggio 2019 e 1 settembre 2024, insieme alla quinta tranche del CctEu 15 novembre 2019.



Orlando Green, fixed-income strategist di Credit Agricole, nota che le elezioni europee hanno fornito molto sollievo per la performance dei bond periferici e che, nonostante il lieve ritracciamento di martedì dei titoli italiani, c’è spazio per ulteriori rally. Fin qui le buone, anzi ottime notizie. Poi però arriva il rovescio della medaglia. Dai dati comunicati sempre ieri dalla Bce è emerso che le banche italiane hanno comprato titoli di Stato per 9,4 miliardi di euro ad aprile: si tratta dell’aumento massimo da giugno 2013, mentre a marzo avevano acquistato titoli di Stato per “soli” 2,1 miliardi.



Con un valore di mercato di 430 miliardi di euro, l’ammontare di titoli del debito sovrano nei portafogli delle banche italiane è il maggiore della zona euro. Ma chi se ne importa, a metà giornata di contrattazione a Piazza Affari l’indice Ftse Mib consolidava il rialzo, complice l’indagine congiunturale sul polso dell’economia nella zona euro che ha mostrato a maggio un nuovo miglioramento, superiore alle aspettative: l’indice economic sentiment è infatti risalito a 102,7 da 102,0 di aprile e a fronte del consenso a 102,2. Ha invece deluso il tasso di disoccupazione in Germania corretto per gli effetti stagionali: si è attestato a maggio al 6,7% a fronte di un consenso al 6,6% e in linea con il dato di aprile (non rivisto). In particolare, il numero dei disoccupati in termini destagionalizzati è salito di 23.937 unità, mentre in termini non destagionalizzati si è attestato a 2,882 milioni (2,943 milioni ad aprile).



Insomma, il sentiment dell’eurozona migliora e con la Bce che giovedì prossimo pare pronta ad agire, non c’è più di che preoccuparsi: è arrivata la benedetta ripresa. O forse no. Perché al netto dello spread basso e delle aste piene garantite da quei 430 miliardi di debito pubblico detenuto dalle nostre banche, il boom di richieste di procedure di ristrutturazione dei debiti (ex articoli 67 o 182 bis della legge fallimentare) o di concordato (nella sue varie forme) registrato dai tribunali lombardi dal gennaio 2011 al giugno 2013 non ha portato all’esisto desiderato dagli imprenditori, il salvataggio industriale, nella metà dei casi. Un dato impressionante se si considera l’importanza del tessuto industriale rappresentato dalla Lombardia, la regione più importante d’Italia in questo senso e tra le più rilevanti su scala europea, in termini di macro-area produttiva, che emerge da un articolo e complesso studio elaborato dall’Università degli studi di Brescia, in particolare dall’Osservatorio sulla crisi e sui processi di risanamento delle imprese, nell’ambito di un progetto più ampio coordinato dalla professoressa Monica Veneziani e finanziato dal gruppo Ubi Banca, Banca Valle Camonica e dalla fondazione Eulo.

Dall’analisi, presentata martedì al dipartimento di Economia e management dell’Università di Brescia, emerge nello specifico che la maggior parte delle imprese (87%) non riesce a concludere accordi con il 60% dei propri creditori e dunque a ricorrere a un accordo di ristrutturazione ex articolo 182. La conseguenza è il comune ripiegamento sul concordato preventivo che in definitiva resta lo strumento più utilizzato. Ma anche in questo non sempre le cose vanno nella giusta direzione. Perché, appunto, circa il 50% delle società attive in Lombardia che hanno fatto ricorso a questa procedura saltano, mentre solo il 18% dei concordati presentati nei diciotto mesi presi in esame dallo studio, è stato omologato. I casi di insuccesso (fallimento) rispetto al boom di domande presentate alle sezioni fallimentari dei tribunali di Milano, Brescia, Bergamo, Cremona e Crema (oltre a quelli relativi a Mantova), hanno caratterizzato il 55% delle imprese ricorse a questa tipologia di procedura.

«Una percentuale così elevata di esiti negativi, per chi ha fatto ricorso alla procedura concorsuale lascia intuire una fisiologica incapacità delle imprese di costruire e proporre piani di risanamento efficaci, oltre a un contesto di elevata incertezza da differenti prassi e interpretazioni dei tribunali», ha commentato il professor Alberto Mazzoleni, responsabile organizzativo dell’Osservatorio e Ricercatore dell’Università bresciana. Forse se parte di quei miliardi spesi negli ultimi due, tre anni per comprare debito si fossero sostanziati in credito alle aziende non saremmo ridotti così ma si sa, un’azienda che chiude non fa notizia, lo spread basso invece si merita l’apertura dei telegiornali e la prima pagina dei quotidiani.

Certo, spread basso significa risparmi per lo Stato nel pagamento degli interessi, ma se distruggiamo il tessuto produttivo della prima regione del Paese, cosa ci resterà un domani? Quali costi aggiuntivi, anche a livello di disoccupazione e coesione sociale, dovrà accollarsi lo Stato per cercare di porre un argine alla desertificazione dell’economia reale italiana? E guardate che questo abbraccio mortale fra Tesoro, banche e debito sovrano vale per tutta la periferia dell’eurozona, così come la contestuale strage di piccole e medie imprese. Volete un esempio? Prendiamo la Grecia, il Paese che dovrebbe essere stato formalmente salvato. Al netto dell’instabilità politica del governo e dello scossone generale degli spread vissuto la scorsa settimana, il rendimento del decennale ristrutturato greco è ancora su livelli accettabili, rispetto alle vette folli della crisi. Bene, chi compra quel debito: banche e assicurazioni elleniche, più qualche hedge fund che si fa forte della legislazione britannica che regola quelle obbligazioni, la clausola pari passu che non permette haircut e obbliga al pagamento in pieno anche in caso di default.

E l’economia reale greca? Stando a un recente studio del dipartimento Small Interprises’ Institute dell’Helleic Confederation of Professionals, Craftsmen and Merchants (Ime-Gsevee), una piccola impresa su due che impieghi fino a 49 lavoratori è a rischio di chiusura nei prossimi mesi, con i bilanci colpiti dai sempre più ridotti introiti e dall’alta esposizione debitoria verso assicurazioni, banche e fisco. Due terzi delle piccole e medie imprese prese in esame nel sondaggio ha visto i propri introiti crollare nella prima metà dl 2013, con l’81,7% di queste rappresentate da piccole imprese: si parla di una riduzione media del 22,9% rispetto allo stesso periodo del 2012, mentre rispetto a cinque anni fa il crollo è stato del 65%. Circa la metà delle aziende prese in esame, per l’esattezza il 47,1%, vede un rischio imminente di chiusura, mentre il 40% entro sei mesi. Dall’inizio della crisi sono oltre 200mila le pmi greche fallite e la Ime-Gsevee prevede che quest’anno ne chiuderanno altre 27-30mila.

E veniamo alla reazione a catena di questa situazione: circa il 40% dei pagamenti ritardati di queste aziende sono verso società assicuratrici, con oltre 370mila pmi che non hanno ottemperato ai loro obblighi verso la Freelancers’ Insurance Organization, mentre il 34,9% è verso società a controllo statale e il 32,7% verso uffici del visto. Ci sono poi le banche, con incagli o sofferenze verso pmi pari al 28,1% del totale. Con le aziende che chiudono e non pagano mutui, prestiti e tasse, quelle percentuali sono destinate a salire ancora e colpire duramente i bilanci di assicurazioni, banche ma anche dello Stato? Ci toccherà ri-salvare la Grecia, ovvero i suoi creditori?

Penso proprio di sì. E la situazione in Spagna e Portogallo non è migliore. Ora godiamoci pure lo spread basso e le aste piene, ammesso che ne abbiate ancora voglia.