A che punto è la ripresa? Anzi, ma c’è la ripresa? La domanda, provocatoria, sorge spontanea di fronte al dato sul Pil Usa del primo trimestre del 2014, sceso dell’1% assai di più delle prime stime (-0,1%) di un mese fa, quando un dato così negativo avrebbe avuto un discreto impatto sui mercati. Stavolta, invece, la reazione di Wall Street è stata più che composta. Anzi, grazie alle operazioni straordinarie (ultimo lo shopping nello streaming di Beats da parte di Apple), Wall Street ha realizzato nuovi massimi.



Nessuno o quasi, discute la tesi che la frenata del Pil è stata causata dal grande freddo che ha colpito in inverno buona parte degli States. Eppure in giro per l’economia globale non mancano i segnali di frenata. L’economia cinese è in frenata, più o meno pilotata. Zhiwei Zhang di Nomura fa notare che le misure di Pechino sono sempre più affannose, segno del nervosismo del governo per una crescita che, in realtà, sta ancora rallentando. In Giappone comincia a farsi sentire l’aumento dell’Iva. L’Europa di sicuro non brilla. I dati del sud Europa, a partire dall’Italia, restano allarmanti. Non aiuta di sicuro la Russia, azzoppata dalla crisi ucraina. E nessuno si illuda sulla salute della locomotiva tedesca, tuona il falco Otmar Issing: la Germania sta velocemente smantellando dopo le elezioni le riforme strutturali del decennio scorso e sta perdendo competitività.



Alla vigilia della prossima, mai tanto attesa, riunione della Banca centrale europea si deve prender atto che le armi della politica monetaria, sufficienti a evitare che la crisi si avvitasse facendo sprofondare il mondo nella recessione, sono deboli per garantire una vera ripresa. E, a mano a mano che il tempo passa, l’economia globale è sempre più vulnerabile. I debiti del sistema sono cresciuti del 30% dal 2007, alla vigilia della crisi dei subprime. L’Italia, nonostante sforzi eroici, oggi vanta un rapporto debito/Pil che s’avvia a sfondare il tetto del 140%.

La spia di questo disagio, occultato dai continui record di Borsa, sta nell’andamento del reddito fisso. I tassi dei decennali Usa scivolano, a poco a poco, all’ingiù: ieri erano al 2,41%, un rendimento ridicolo se si crede alla prospettiva di una forte accelerazione dell’economia, come dovrebbe avvenire al termine di una recessione così lunga e profonda. Intanto il Tesoro tedesco, con metodi disinvolti, non lesina gli inghippi per abbassare i tassi alle aste del debito di Berlino.



Eppure, la materia prima, cioè il denaro, non manca: le grandi società Usa scoppiano di denaro, con una cassa che supera i mille miliardi di dollari e un cash flow elevato. Possibile che con i tassi così bassi le imprese non si mettano a comprare nuove macchine e nuovo software? Possibile, perché le aziende non annusano aria di ripresa dei consumi e così, invece di investire, utilizzano i quattrini per comprare azioni proprie o per nuovi merger capaci di saziare l’appetito degli azionisti più aggressivi, insaziabili per definizione. Certo, l’economia Usa ha scongiurato il peggio. Ma non è ancora uscita dalla tenda a ossigeno. In Europa, naturalmente. Le cose vanno ben peggio.

È in questo quadro che stamane Mario Draghi comincerà a scaldare i motori della Bce. È in programma, infatti, l’uscita dello studio congiunto Bce-Banca d’Inghilterra sullo sviluppo del mercato degli Abs, cioè i prodotti strutturati basati su mutui e prestiti vari. È un tema estremamente importante agli occhi di Draghi. A Sintra, la cittadina medievale sopra Lisbona in cui la Bce ha radunato a inizio settimana alcuni dei più importanti economisti, il banchiere non ha battuto ciglio di fronte agli argomenti di Adam Posen, presidente del Pesterson Institute, assai scettico sull’efficacia di un taglio del costo del denaro in Europa, ma è esploso in un eloquente “sono perfettamente d’accordo” quando lo stesso Posen ha sostenuto che è necessario fare fin da subito qualcosa per accelerare l’arrivo di mezzi freschi alle piccole e medie.

È questo l’obiettivo che Draghi si propone affrontando il tema dei mercato degli Assets backed securities (o Abs), questione all’apparenza tecnica ma dal grande significato politico. Gli Abs, bond strutturati garantiti da prestiti, quali mutui, carte di credito, debiti commerciali, leasing e così via, sono stati uno degli strumenti scelti dalla Federal Reserve per gli acquisti previsti dal Quantitative easing. Uno strumento, insomma, che è stato in grado di restituire flessibilità e fiducia ai mercati mobiliari ingessati dalla crisi. Ma che, ahimè, in Europa è in pratica assente, soprattutto in Italia, terra dove il credito passa quasi tutto dall’intermediazione bancaria.

Un gap di struttura che va colmato al più presto, sia per immettere al più presto liquidità nell’economia reale che per limitare l’utilizzo del capitale delle banche commerciali. Ancor prima probabilmente Draghi rimetterà mano ai prestiti alle banche: un Ltro bis corretto all’inglese sulla base del programma Funding for lending. Ovvero i capitali prestati alle banche godranno di trattamento agevolato se saranno destinati al finanziamento delle piccole e medie imprese.

Riuscirà in questo modo la Bce a contrastare la deflazione? Probabilmente no. Anche perché c’è da dubitare che le chiavi della ripresa e della crescita passino soprattutto dalla politica monetaria. C’è necessità urgente, è vero, di capitali per alimentare la domanda dopo la severa dieta basata sull’offerta. Ma la difficoltà a rimettere in moto gli animal spirits dell’economia americana dimostrano che, ancora una volta, i soldi sono importanti ma non sono tutto. La spinta principale dev’essere politica.