«Stay hungry, stay foolish!» È la celebre frase con cui Steve Jobs concluse il discorso nel 2005, di fronte ai neolaureati dell’Università di Stanford. «Le start-up sono fuffa, aprite una pizzeria, almeno se fallite mangiate una pizza», sono invece le parole rivolte agli studenti dell’Università Bocconi di Milano pronunciate da Flavio Briatore, invitato a parlare di economia e imprenditorialità. La sfacciata concretezza e brutalità di Briatore assume toni grotteschi e ci mette di fronte a un paradosso su cui però è necessario riflettere.



Può sembrare strano che dichiarazioni di questo tipo arrivino proprio da chi ha fatto dell’imprenditorialità e del mettersi continuamente in gioco un proprio cavallo di battaglia, almeno nell’immaginario comune, ma altrettanto concretamente si possono riscontrare alcune verità di fondo, riconoscendo che le start-up, per loro vocazione stessa, non sono delle garanzie di successo e non si devono alimentare false speranze. Oltre a riconoscere che l’Italia non è stata in grado di sviluppare un ecosistema con caratteristiche tali da favorirne la nascita, lo sviluppo e il successo, benché qualcosa si stia lentamente muovendo.



Eppure l’Italia avrebbe un drammatico bisogno di start-up, non solo per il contributo che possono dare all’occupazione, ma perché start-up significa innovazione, nuove idee, svecchiamento del tessuto imprenditoriale, sviluppo in nuovi settori, creatività. Proprio la creatività che ci ha fatto così grandi nel passato e che oggi è soffocata e inespressa. Quella creatività che non è, come non lo è mai stata, garanzia di successo e di sicurezza del lavoro, ma che è il vero motore per il progresso della società e che spesso rimane bloccata proprio dalla paura di fallire. Il “Rapporto Amway 2013” sull’imprenditorialità in Italia e in Europa, condotto attraverso interviste a un campione rappresentativo di oltre 26.000 persone, sottolinea che ciò che frena l’iniziativa imprenditoriale nel nostro Paese è principalmente la paura di fallire, soprattutto tra i giovani (indicata dal 92% dei giovani intervistati, rispetto a una media Ue del 75% e Usa del 46%).



Ad alimentare la paura di fallire dei potenziali giovani imprenditori italiani è innanzitutto la minaccia delle conseguenze di una crisi economica (nel 54% degli intervistati italiani, rispetto a una media del 37% in Ue e del 21% in Usa) e la conseguente perdita di autostima (24% tra i giovani italiani, rispetto al 17% dei pari età europei o all’11% degli statunitensi).

Se la paura di fallire è il principale ostacolo all’imprenditoria giovanile e allo sviluppo di start-up innovative in Italia, è necessario capire quali politiche o interventi sarebbero auspicabili al fine di invertire la tendenza e favorirne la nascita e lo sviluppo, pensando anche gli effetti in termini di occupazione, in un momento in cui il mercato del lavoro tradizionale è bloccato e i giovani soffrono una situazione di disoccupazione allarmante. L’impatto occupazionale legato allo sviluppo di start-up innovative non dovrebbe essere sottovalutato, in un contesto nazionale in cui le poche grandi aziende esistenti procedono a colpi di cassa integrazione e licenziamenti e il tessuto imprenditoriale della Piccola media impresa non è stata in grado di rinnovarsi e non riesce a competere in termini di produttività, anche a causa di un clamoroso ritardo tecnologico.

Secondo gli ultimi dati di Infocamere, in Italia sono quasi 2 mila le neoimprese ad alto tasso di innovazione (quasi 250 nate nel 2014), per un totale di oltre 4 mila occupati. Di queste, circa 60 hanno comunicato di impiegare più di 5 persone, mentre sono 16 le aziende con ricavi superiori al milione di euro. Numeri ancora marginali, certamente, ma non mancano esempi concreti a dimostrare che anche in Italia si possono creare start-up di successo: aziende come Yoox, leader mondiale nell’e-commerce di grandi marchi dell’abbigliamento; Volagratis, uno dei principali operatori europei nel settore dei viaggi online; Gioco Digitale, pioniere in Italia nel settore dei giochi online; Venere.com, specializzata nella prenotazione degli hotel, venduta nel 2008 al colosso Expedia.

La nostra rimarrà comunque una situazione ben lontana rispetto a quella degli Stati Uniti, dove ogni anno un milione di posti di lavoro viene creato da aziende che hanno meno di un anno di vita e la quasi totalità delle assunzioni avviene in imprese che hanno meno di cinque anni. Ma proprio agli Stati Uniti è necessario guardare per capire la direzione da seguire e cercare di individuare le leve su cui agire per sbloccare un potenziale inespresso di circa 300 mila aspiranti imprenditori (stime Italia Start Up).

Le esperienze internazionali ci insegnano che la nascita e il successo di imprese innovative è strettamente dipendente dalla presenza di un vero e proprio ecosistema completo a supporto delle start-up, che coinvolga il sistema dei decisori politici, quello universitario ed educativo, oltre che ovviamente le istituzioni finanziarie. Ciascuno deve giocare il proprio ruolo.

Il sistema politico deve necessariamente dedicare maggiore attenzione e investire maggiori risorse. Nella sfida della globalizzazione, le economie che stanno dimostrando un maggior dinamismo e resistenza agli shock derivanti dalle crisi dei mercati sono quelle che mantengono nel tempo connotati tecnologici e innovativi. Per questo le politiche economiche dei governi dovrebbero essere sempre più mirate a incentivare lo sviluppo di settori industriali e imprese che fanno di innovazione, R&S e tecnologia il loro punto di forza. In Italia, nonostante l’impegno e le dichiarazioni dei diversi governi, questo tipo di imprenditorialità fatica a emergere e affermarsi.

Fondamentale è anche il ruolo del sistema educativo, in particolare universitario e post-universitario, che deve svolgere il ruolo di incubatore di innovazione e di collante con il mondo del lavoro. Tornando all’improponibile paragone con gli Usa, ma utile per capirne le potenzialità, la Stanford University è nota da tempo come leader mondiale per l’innovazione e rappresenta il trampolino di lancio per i giovani imprenditori. Da uno studio condotto emerge che le quasi 40.000 aziende fondate da ex allievi dell’università hanno generato migliaia di miliardi di fatturato annuo e hanno creato complessivamente quasi 6 milioni di posti di lavoro.

Infine, anche le istituzioni finanziarie costituiscono parte dell’ecosistema necessario allo sviluppo delle start-up, fondamentali nel raccogliere e mettere a disposizione le risorse necessarie. È sconfortante constatare il ridotto numero di investimenti effettuati in tal senso dal mondo finanziario italiano, rispetto a quanto accaduto in altri paesi europei.

C’è quindi molto lavoro da fare, se l’Italia intende agganciare questo treno, anche perché il terreno perso è già parecchio e non solo nei confronti di paesi tradizionalmente a vocazione innovativa, come gli Usa, ma anche rispetto ai più vicini e stretti partner europei. Berlino, solo per fare un esempio, è una delle realtà più attive da questo punto di vista e si sta affermando come capitale europea delle imprese innovative, grazie all’azione congiunta sull’ecosistema a supporto delle start-up e con la partecipazione responsabile e coordinata di pubblico e privato.

Inutile dire che ciò che serve è innanzitutto un cambio di atteggiamento culturale del Paese nel suo complesso. Richiamiamo in causa Briatore, che è anche il protagonista della versione italiana del programma televisivo The Apprentice, in cui aspiranti uomini d’affari devono superare una serie di prove manageriali, al termine delle quali è riservata al vincitore la possibilità di sfruttare una particolare occasione. Nell’ultima serie inglese di The Apprentice UK il vincitore ottiene che il boss partecipi al finanziamento di una sua iniziativa imprenditoriale. Nella versione italiana chi vince diventa di diritto un dipendente in una delle aziende del boss (Briatore nello specifico). Sarà solo un programma televisivo, ma la dice lunga sul cambio culturale e di atteggiamento a cui si faceva riferimento.