Si moltiplicano in questi giorni studi e riflessioni sulla stagione di Enrico Cuccia e di Mediobanca. Forse perché si sta ormai per completare la trasformazione della banca da salotto più o meno buono a difesa degli equilibri di sistema a player finanziario “normale”, a caccia di profitti più che di posizioni chiave nell’economia domestica. La decisione di piazzetta Cuccia di sciogliere, assieme a Generali e Banca Intesa, il patto di Telco, la holding costituita per proteggere, con il contributo di Telefonica, l’ex monopolista dalle mire di At&t e di America Movìl, ha il sapore di un atto simbolico, il simbolo di una rivoluzione strisciante che sta cambiando il volto dell’economia italiana.



L’elenco è lungo. Nel giro di un anno o poco più, Mediobanca si è liberata del legame con i Ligresti, ha allentato i rapporti con Rcs, si prepara a ridurre il peso dell’investimento in Generali. Telecom Italia si avvia a essere una public company. Intanto Banca Intesa, oltre a preparare l’addio alle tlc, fa pulizia nei (disgraziati) investimenti immobiliari e nella ragnatela di partecipazioni accumulate dall’alleata Tassara.



Per quanto riguarda l’industria, tutti i big hanno preso o stanno prendendo il passaporto. Fiat, senza attendere le trasformazioni del diritto societario italiano che presto dovrebbe consentire le azioni con diritto di voto plurimo, ha ormai preso domicilio in Olanda permettendo al clan Agnelli di controllare il 51% di Fiat Chrysler Automobiles con il 25,1% del capitale. Pirelli ha scelto la carta russa di Rosneft, la maggioranza del capitale di Prysmian e Stm è in mano dei grandi investitori istituzionali internazionali. E l’acciaio dell’Ilva, se tutto andrà nel modo giusto, finirà nell’orbita di ArcelorMittal. Così come Alitalia, sposa promessa a Etihad.



Eppure sono in pochi a gridare alla “svendita” agli stranieri o alla calata dei barbari. Seppur a fatica, si è fatta strada la giusta constatazione che in un’economia globale che impone investimenti e know-how imponenti, l’Italia è una base troppo piccola per consentire dimensioni di scala e competenze adeguate. Di qui la necessità di allearsi per competere: qualche volta in posizione di leadership (come in parte è riuscito a Fiat), spesso con un ruolo più limitato. Fanno eccezione i settori ove competenza e genio imprenditoriale si sposano con interventi di nicchia: l’Italia è leader negli occhiali, grazie a Luxottica, e recita comunque un ruolo di prima fila nell’alimentare (Ferrero, Barilla) o nel fashion.

La trasformazione più clamorosa o quantomeno la più rapida riguarda il mondo bancario. La separazione tra banche e controllo “di fatto” da parte delle Fondazioni ex bancarie (auspicato dal governatore Ignazio Visco) non si è ancora completata. Ma cresce, sia in Intesa che in Unicredit, il ruolo dei grandi investitori internazionali, che hanno scoperto l’Italia o, come è più giusto dire, finalmente possono entrare in banca, senza opposizioni ufficiali (vedi la Banca d’Italia nella stagione dei furbetti) o quelle, assai più insidiose, di una politica invadente, vuoi a livello centrale che in periferia. Più ancora, è ormai caduto il fortilizio di Monte Paschi assieme a quello di Banca Carige, sgretolato dall’offensiva giudiziaria e dalle spoliazioni criminali.

All’appello manca ancora il dossier privatizzazioni, appena inaugurato da Fincantieri, così come il ritorno di interesse verso la Borsa, ove si affollano almeno 22 possibili matricole. Per non parlare di altre formule, più o meno innovative: minibond, cartolarizzazioni, fondi dei fondi promossi da private equity o dalla stessa Cdp.

L’elenco è lungo, ma senz’altro incompleto. Tante novità, infatti, battono alle porte. E il trend è destinato ad accelerare quando prenderanno forma le novità proposte da Palazzo Chigi: deduzione dall’imponibile Ires dei nuovi capitali raccolti in sede di quotazione; l’emissione di azioni a voto plurimo; una soglia dell’Opa tra il 20% e il 40% per le Pmi; un diverso tetto per la comunicazione delle partecipazioni rilevanti.

L’intento è chiaro: è necessario ridurre la dipendenza dell’economia italiana dal finanziamento bancario, un po’ per la minor capienza del sistema del credito, un po’, si spera, perché si fa strada la convinzione che un capitalismo sotto tutela, sia da parte della Mediobanca di turno che dalla mano pubblica, è destinato a far poca strada in una competizione che richiede voglia di intraprendere e di rischio.

Il capitalismo italiano (l’utile conferma arriva dalla bagarre sulle rinnovabili) si è mosso in questi anni alla ricerca di protezioni pubbliche e di utili garantiti. Meglio una commessa da parte del Mose o un appalto nei settori protetti da tariffe sempre crescenti (vedi le autostrade) piuttosto che rischiare. Una scelta miope che è all’origine di tanti handicap. Nell’ultimo decennio, scrive sulla Voce Diego Valiante, “l’Italia è rimasta il fanalino di coda in Europa per quantità, qualità e creazione di capitale fisso. Il nostro sistema economico non perde solo produttività, ma anche un altro fondamentale fattore produttivo: la qualità degli investimenti di medio e lungo termine”. Ma per spiegare questa ritirata è probabilmente più utile interrogarci sulla governance assistita del nostro tessuto imprenditoriale e sulla sua incapacità, in questi anni, di rinnovarsi nel tempo, favorita dall’invadenza dei potentati pubblici. Speriamo che la musica, finalmente, sia cambiata per davvero.