Le prime stime sul Pil americano del primo trimestre indicavano una modesta ripresa, pari allo 0,1%. Poche settimane dopo la doccia fredda: la discesa, in realtà, era stata dell’1%, un tonfo sufficiente a rimettere in discussione la forza della ripresa negli Stati Uniti. Ieri, infine, l’ultima (si spera definitiva) versione: il tonfo dl primo trimestre è stato del 2,9%. Insomma, in un mondo in cui fiumi di denaro si spostano alla velocità della luce sull’onda di dati sempre più sofisticati, la qualità dei numeri a disposizione dei mercati lascia a desiderare. Forse non a caso.
La notizia del tonfo del Pil americano (conseguenza in parte del grande freddo, in parte dell’avvio stentato della riforma sanitaria) avrebbe provocato un tracollo di almeno pari proporzioni sui mercati finanziari ad aprile. Oggi, quando i dati più recenti segnalano la forte ripresa dell’economia, non spaventano più. Così come sono meno violente le polemiche sull’Obamacare o sul budget federale, temi politicamente assai caldi nella scorsa primavera. Il tempo si è incaricato di lenire le ferite. E quei numeri così potenzialmente devastanti non hanno impedito alle Borse di chiudere in rialzo o, in particolare, al Nasdaq di festeggiare il record da 14 anni a questa parte. Anzi, la caduta del Pil è oggi interpretata come la conferma che la ripresa è così debole da rischiare frenate improvvise, è una garanzia in più per Wall Street sulle reali intenzioni della Federal Reserve: in una cornice del genere i tassi sono destinati a restar bassi per un bel po’.
Il balletto dei numeri non è un’esclusiva americana. Le statistiche di Eurostat ci hanno offerto in questi anni vari esempi di sopravvalutazione o sottovalutazione dei conti dei vari paesi dell’eurozona. In Italia, da almeno tre anni, le stime ufficiali sul tasso di crescita da parte dei vari governi si sono rivelate errate, e non di poco. Anche l’attuale esecutivo sembra avviato sulla stessa rotta: secondo il Def, l’Italia crescerà quest’anno dello 0,8%. Le stime dell’Europa hanno dimezzato la previsione. Il Centro studi della Confindustria si è spinto più in là: per quest’anno la crescita italiana non supererà lo 0,2% con un taglio rispetto alle previsioni dello scorso dicembre che indicavano un +0,7%. Per il 2015 la crescita attesa scende dal +1,2% al +1%.
La previsione è condita dall’aggiornamento del consueto bollettino di guardia: tre milioni di persone povere in più (+93,9%), 3,7 milioni in più cui manca lavoro (+122,3%). E ancora: -9% Pil, -23,6% produzione industriale, -43,15% costruzioni, -8% consumi famiglie, -27,5% investimenti, -7,8% di occupazione e quasi 2 milioni (1,968) di unità di lavoro perse. Fin qui nulla di nuovo. La novità è che, a differenza delle aspre critiche rivolte al governo Letta, reo di immobilismo, la litania delle cifre (se possibile ancora peggiori) è stata condita con parole di grande fiducia nei confronti dell’esecutivo.
Il linguaggio dei numeri, insomma, stavolta non serve per inchiodare l’esecutivo alle proprie responsabilità. Semmai, come avviene in un’azienda al passaggio di consegne dalla vecchia alla nuova gestione, è il momento di far piazza pulita dei residui del passato per ricominciare daccapo. Nella speranza che d’ora in poi, almeno sul piano percentuale, arrivino solo tanti segni più.
“I numeri forse sono ancora difficili da accettare ma oggi le prospettive sono in miglioramento. L’Italia non è più sull’orlo del baratro”, conferma non a caso il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, dopo le stime del centro studi di via dell’Astronomia. E sottolinea anche: “Si è avviato un ciclo politico di riforme che sembra avere finalmente stabilità”.”Bisogna avere e dare al Paese le giuste priorità . Scegliere è difficile, ma il coraggio e la volontà di decidere non sembrano mancare al nostro presidente del Consiglio”.
Dalla delusione alla speranza, insomma. Senza che la sostanza per ora sia cambiata granché. Ma con la convinzione che si è finalmente “avviato un ciclo politico di riforme che sembra avere finalmente stabilità”. In questa nuova cornice, al di là del balletto delle parole (più ballerine delle statistiche più o meno flessibili e addomesticabili) si può uscire dalla trappola dell’austerità, purché l’Unione europea prenda atto che quella attuale è soprattutto crisi della domanda che non si risolve concentrandosi solo sul fronte dell’offerta (comprese le leggi sul mercato del lavoro), bensì promuovendo gli investimenti che a loro volta richiedono capitali che solo una politica monetaria e fiscale più aggressiva possono fornire, scongiurando un declino doloroso e quasi irreversibile.
Più che sui numeri da prefisso telefonico della crescita, infatti, vale la pena soffermarsi sul bollettino dei costi della crisi sulla società italiana. La recessione ha indotto una generazione di giovani a rinviare a tempo indefinito l’uscita dalla casa dei genitori (fenomeno che sta contagiando ormai anche gli Stati Uniti, vedi uno splendido reportage del New York Times Magazine), a rinviare la formazione di una famiglia, l’acquisto di una casa propria e quindi a rallentare la crescita demografica, colpita anche su un fronte ulteriore: il calo dell’immigrazione in grado di integrarsi e partecipare allo sviluppo.
Più vecchi, meno figli e meno immigrati: tre situazioni destinate a ipotecare un prossimo decennio di crescita lenta contro cui è il caso di ribellarsi ora senza illudersi che basti una lunga stagione di bassi tassi a rinsanguare un Paese anemico.