Mentre Renzi firmava 24 progetti di sviluppo, in particolare per il Sud, ieri risuonavano ancora i dati preoccupanti per l’economia italiana. Oltre a quello sul fatturato estero dell’industria italiana in calo dell’1,9% diffuso lunedì dall’Istat, nei giorni scorsi Credit Suisse aveva pubblicato un rapporto che raffronta le economie di Italia e Spagna, mostrando come gli investitori internazionali preferiscano sempre più spesso Madrid. Nel frattempo la Germania, locomotiva d’Europa, prevede un rallentamento della propria economia: un campanello d’allarme da non sottovalutare, come ha sottolineato il ministro dell’Economia Padoan. Ne abbiamo parlato con il professor Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.



Professore, qual è la situazione generale che emerge da questi indicatori?

La domanda interna è ancora estremamente fiacca in tutta l’Eurozona. Fa da contraltare la Gran Bretagna che attraverso politiche espansive, il deficit di bilancio e il quantitative easing è riuscita a riportare il Pil in crescita. La Bundesbank ha invece annunciato che in Germania nel secondo trimestre nella migliore delle ipotesi ci sarà una crescita zero. È pur vero che il primo trimestre era stato piuttosto intenso, ma la crescita del Pil tedesco era stata generata da un clima invernale particolarmente mite che aveva favorito i cantieri nel settore costruzioni.



Come valuta il dato sul commercio estero dell’Italia?

Lo ritengo un dato preoccupante. Nel primo trimestre il commercio estero intra-europeo si stava leggermente riprendendo, proprio perché si sperava che sull’onda della fiducia ci sarebbe stata una ripresa dell’Europa. E sempre all’inizio di quest’anno abbiamo avuto un fenomeno di ricostituzione delle scorte da parte delle imprese. Nello stesso tempo abbiamo avuto un calo sensibile delle esportazioni extra-europee, perché le valute dei Paesi Brics si sono svalutate e la stessa Cina ha smesso di rivalutare lo yuan. La conseguenza è che i dati sul commercio extra-Ue fino all’inizio dell’estate scorsa erano in forte crescita, mentre nel momento in cui questi paesi hanno svalutato le monete c’è stato un effetto negativo.



Che cosa ne pensa invece del fatto che gli investitori internazionali preferiscano la Spagna all’Italia?

L’unica riforma introdotta dalla Spagna è consistita nel rendere più flessibile il mercato del lavoro. Un intervento che ha riguardato soprattutto la grande industria, con l’obiettivo di aumentare la competitività soprattutto del settore automotive. Si tratta però dell’unico aspetto positivo dell’economia spagnola. Madrid ha un rapporto deficit/Pil del 7%, un debito pubblico che sta arrivando al 100% del Pil, un’economia privata ancora fortemente sconvolta dalla bolla immobiliare e una manifattura veramente povera. A parte gli investimenti stranieri nell’auto, infatti, la Spagna ha una situazione tale per cui la bilancia commerciale con l’estero non è particolarmente entusiasmante. La bilancia manifatturiera italiana è pari a +100 miliardi di euro e quella spagnola è in pareggio. Per il nostro Paese, quindi, la Spagna può rappresentare tutto tranne che un modello da imitare.

 

Che cosa ne pensa del pacchetto di contratti di sviluppo firmato dal premier Renzi?

Lo reputo un intervento positivo, anche se il nostro Paese non può pensare di risolvere tutti i problemi da solo. L’Eurozona nel suo complesso deve ricercare la possibilità di rilanciare finalmente gli investimenti. Quello illustrato dal presidente della Commissione Ue, Juncker, è un piano interessante. Il progetto dei 100 miliardi l’anno per tre anni può essere la chiave di volta di una ripresa più solida e strutturata, senza cui saremo qui ogni mese a commentare un andamento “a dente di sega”, che un mese sale e l’altro scende. In questo modo la disoccupazione non calerà. A politiche invariate, si prevede che nel 2017 sia Italia che Francia saranno al di sopra di un tasso di disoccupazione del 10%.

 

(Pietro Vernizzi)