Le esportazioni dell’Italia verso i Paesi extra-Ue hanno registrato una contrazione del 4,3% tra il giugno 2014 e il maggio precedente, mentre le importazioni sono cresciute dell’1,9%. È quanto emerge dagli ultimi dati Istat, secondo cui nel mese di giugno la flessione tendenziale dell’export, pari al -2,8%, ha riguardato soprattutto i beni durevoli (-9,7%), l’energia (-5,6%) e i beni strumentali (-4,4%). Nel frattempo Confindustria lancia l’allarme: nel 2014 il Pil resterà piatto. Ne abbiamo parlato con il professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze.
Come valuta i dati sul calo delle esportazioni verso i Paesi extra-Ue?
Il punto vero della competitività italiana sta nel mercato extra-Ue. Mentre in quello dell’Eurozona siamo di fronte a una tendenza ciclica non favorevole, in un periodo di tendenziale deflazione, la componente extra-europea dell’economia mondiale è in espansione, in particolare per quanto riguarda gli Stati Uniti, ma anche i Paesi asiatici e l’Australia. Il test della nostra capacità di competere sulla base dei dati sul commercio estero viene da qui, perché è da qui che possiamo capire se indipendentemente da fattori di congiuntura non favorevole siamo efficienti e riusciamo a crescere riemergendo dalla crisi.
Quanto contano in questa prospettiva le nuove statistiche Istat?
Questo test non è positivo, e la spiegazione è semplice. Il tasso di cambio per l’Italia è troppo alto in relazione ai salari troppo rigidi. Il nostro Paese sta quindi perdendo colpi e rischia la deindustrializzazione. A ciò si aggiungono alcune crisi settoriali, per esempio del settore siderurgico, o del settore dei trasporti aerei, che possono avere complicato il quadro.
Quali sono le cause di questa situazione?
Con Prodi e la sinistra italiana abbiamo scelto di entrare nell’Ue senza attuare una riforma del mercato del lavoro, anzi con gli accordi neo-corporativi che hanno fatto fare alla nostra economia del lavoro passi indietro rispetto a ciò che aveva fatto Craxi rompendo il patto neo-corporativo con Confindustria e i sindacati sulla scala mobile. Nonostante i suoi sforzi, Renzi non riesce a liberarsi dal tabù dell’ipoteca della Cgil e da questa concezione che in Germania è stata superata dai socialdemocratici. La sinistra italiana ci sta portando alla deindustrializzazione, al declino, e alla conquista da parte di compagnie straniere dei pezzi di argenteria perché sono maggiormente in grado di riuscire ad affrontare questo rebus.
La Bundesbank vede una frenata dell’economia tedesca. Cosa ne pensa?
La frenata della Germania è conseguenza del cambio alto dovuto al surplus dei pagamenti, e al fatto di non fare niente per aderire alle politiche espansive auspicate dalla Bce. A ciò si aggiunge il fatto che la Germania non ha adottato politiche per superare l’anomalia del suo surplus, dovuto a un eccesso di bilancia dei pagamenti, e che perfino l’Ue non ha nessuna politica fiscale comune.
A che cosa imputa questa mancanza di una politica fiscale comune?
Un tempo l’Ue aveva varato il Fondo sociale europeo, il Fondo agricolo e il progetto sui trasporti. Con la sovranità tedesca sull’Ue, questa capacità di innovare dal punto di vista delle infrastrutture si è bloccata. Nella Bei non abbiamo una politica di sviluppo adeguata a quelle che potrebbero essere le sue potenzialità. In sostanza non abbiamo motivi di crescita all’interno dell’Ue, bensì motivi deflattivi, e adesso anche la Germania ne subisce i contraccolpi. A ciò si aggiunge l’atteggiamento ondivago di Berlino nei confronti della Russia, e il risultato è che l’intero quadro si è complicato.
(Pietro Vernizzi)