Sempre peggio. Come ricorderete, vi ho dato conto della dichiarazione del presidente portoghese, Anibal Cavaco Silva, il quale riferendosi al caso del Banco Espirito Santo non escludeva – anzi, preannunciava – conseguenze sistemiche per l’economia del Paese dopo il fallimento e la messa in amministrazione controllata di due holding della banca. Bene, ora siamo arrivati a tre: nel fine settimana la terza e ultima controllata dell’istituto, il ramo operativo Espirito Santo financial group (Esfg), ha avanzato richiesta di amministrazione controllata sotto regime di legislazione lussemburghese. Quindi, prima fu Eesi e tutti parlarono di una tempesta in un bicchiere d’acqua, poi fu RioForte e si parlò di rischio contenuto, ma dopo le parole del presidente e il tonfo di Esfg si può parlare di crisi sistemica: il primo grafico a fondo pagina spiega bene la catena di controllo e ora non resta che chiedersi, quanto manca al salvataggio obbligatorio di Banco Espirito Santo da parte dello Stato. Con quali soldi? E con quali ricadute su economia reale e crescita?



Signori, non stiamo parlando del Credito cooperativo di Vattelapesca, questa è la prima banca portoghese e il suo ramo finanziario non è in grado di ottemperare ai suoi obblighi verso gli obbligazionisti e verso le operazioni che ha compiuto: stanno cadendo i tasselli uno dopo l’altro. Usando una formula secca, è un evento sistemico. Con anche un coté giudiziario, visto che l’ex amministratore di Banco Espirito Santo – dimessosi pochi mesi fa – è stato messo prima in stato di fermo con l’accusa di riciclaggio di denaro e dopo la prima udienza il giudice gli ha imposto il divieto di espatrio.



Brava gente a tutte le latitudini, non c’è che dire. Ma si sa, come ci fanno sapere i regolatori, il sistema bancario europeo è sano e soprattutto la ripresa è in atto: attendo con ansia, quasi come un bimbo attende la mattina di Natale, i farseschi risultati che usciranno dagli stress test, roba da morire dalle risate. Chi comincia a ridere sempre meno, invece, è Mario Draghi, il quale sa che le misure annunciate non serviranno a nulla, ma ora comincia a essere davvero preoccupato. Vi spiego il perché.

Come ben saprete, visto che giornali e telegiornali non ci parlano d’altro, gli spread dei debiti sovrani della cosiddetta “periferia” sono ai minimi storici: non importa che le previsioni di crescita dell’Italia abbiano appena subito un severo downgrade, non importa che il sistema bancario portoghese sia al collasso, non importa che le sofferenze bancarie spagnole stiano salendo all’impazzata. No, non importa: l’importante è che il differenziale di rendimento col Bund non salga, anche se questo comporta acquisti suicidi da parte delle banche o l’intervento della Bce sul mercato secondario.



Come sapete, però, a me è un altro lo spread che interessa, ovvero quello che riguarda il tasso a cui possono finanziarsi le aziende per poter lavorare, fare ricerca, investire. Guardate il secondo grafico qui sotto: compara il vero spread, ovvero il tasso richiesto alle aziende italiane, spagnole e portoghesi per un prestito sopra i 5 anni da 1 milione di euro in su rispetto a quello richiesto alle loro concorrenti tedesche. Bene, questo spread non è mai stato così alto!

Tra aziende portoghesi e tedesche a maggio lo spread era di 5,09 punti percentuali, per quelle italiane 2,91% e per quelle spagnole 2,65%: a giugno siamo saliti al 5,39% per quanto riguarda le aziende portoghesi, al 3,51% per quelle italiane e al 3,25% per quelle spagnole e stiamo parlando, nella quasi totalità dei casi, di finanziamenti che riguardano piccole e medie imprese, ovvero la spina dorsale delle nostre economie. Come si può pensare che esista ripresa con situazioni simili? E come vi ho già detto fino alla noia, i soldi che Draghi ha promesso alle banche in autunno non solo non sono sufficienti in linea teorica ma non esistono in linea pratica, visto che le banche sono costrette a un deleverage selvaggio dalle nuove normative di Basilea e sono alle prese con sofferenze in crescita e detenzioni di debito ormai mostruose che, in caso finisca la tregua dello spread, rischiano di tramutarsi in perdita da contabilizzare a bilancio.

E attenzione, se l’Europa è a pezzi non possiamo certo contare su altri mercati per cercare di agganciarci passivamente al traino di una presunta ripresa globale. Nei giorni scorsi ho cercato di fornirvi un quadro d’insieme dello stato dell’economia a livello mondiale, mentre nello scorse settimane mi sono soffermato su alcuni indicatori tecnici che sembravano confermare quanto dico da tempo: siamo nel pieno di una bolla creata dalle politiche delle banche centrali e quella bolla o si riesce a farla deflettere in maniera controllata – ma ci vorrebbe un mago o una guerra su larga scala – oppure prima o poi scoppierà in maniera disordinata e allora il 2008 ci sembrerà un roseo ricordo.

A confermare il fatto che il punto di non ritorno si sta avvicinando ad ampie falcate ci ha pensato venerdì il misuratore di valutazione preferito e più seguito da Warren Buffett, uno che di investimenti e di Borsa qualcosina ci capisce: guardate quest’ultimo grafico, compara il valore di mercato delle aziende statunitensi con il Pil calcolato prima del tasso di inflazione. Ebbene, siamo quasi a una misurazione di rosso record per la bolla in atto, stiamo raggiungendo i picchi del 1999-2000 e abbiamo già superato il livello della crisi Lehman e subprime.

Attenzione, perché questa volta gli ingredienti per farsi male davvero ci sono tutti. Lo conferma anche Warren Buffett.